VON KLEIST: Il principe di Homburg
Von Kleist: Il Principe di Homburg è diventato il testo emblematico della dicotomia tra l’obbedienza agli ordini ed il fare ciò che è giusto
Von Kleist: Il Principe di Homburg
dramma del 1810
Il protagonista riesce a vincere una battaglia contro gli svedesi, ma ciò è avvenuto in disobbedienza degli ordini ricevuti. Condannato a morte, rifiuta la grazia.
Il Principe di Homburg è diventato il testo emblematico della dicotomia tra l’obbedienza agli ordini ed il fare ciò che è giusto
IN QUESTA PAGINA: Obbedire a chi? – …dell’etica – …ribelle e sognatore – La prospettiva superiore dell’assoluto – Una disciplina sovrumana – Marco Bellocchio: il cinema
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VON KLEIST: Il PRINCIPE DI HOMBURG
Obbedire a chi?
NON LASCIATEVI SCORAGGIARE DALLA DEFINIZIONE DI ‘DRAMMA ROMANTICO TEDESCO’, perché questa è un’ opera teatrale bellissima che è stata adattata più volte per il cinema, ultimamente in un film con la regia di Bellocchio.
Semplicissima la trama: il principe di Homburg, disobbedendo agli ordini, attacca battaglia contro gli svedesi. Il nemico è messo in fuga ma le regole militari sono ferree. Homburg viene condannato a morte.
Il principe elettore di Brandeburgo accoglie la supplica per concedergli la grazia, purché sia Homburg stesso ad affermare che la sua condanna sarebbe stata ingiusta. Questo Homburg non può farlo e accetta di morire. E a questo punto riceve la grazia.
Personaggi principali
Due personaggi principali, parecchi secondari, ma tutti con un ruolo ben preciso. Il principe di Homburg ha il coraggio della gioventù e dell’incoscienza, non si rende neppure conto di disubbidire perché non ha sentito gli ordini, perso in sogni d’amore. E’ l’antieroe romantico, che ha il terrore della morte e, per evitarla, sarebbe disposto a tutto. A quasi tutto.
La prova
Perché la prova a cui lo sottopone l’Elettore lo fa crescere all’improvviso, gli fa acquistare una nuova dimensione. L’Elettore è il sovrano ideale, giusto di una giustizia salomonica, il padre che ha il compito di iniziare il figlio alla vita e ogni iniziazione, si sa, passa attraverso la morte. Si capisce benissimo perché questo dramma sia piaciuto tanto alla Germania nazista, con l’esaltazione dell’obbedienza cieca. Ma ci sono anche due personaggi che spingono a meditare su una diversa interpretazione: il colonnello Kottwitz difende un’idea di soldato che non obbedisce alla disciplina rinunciando all’ intelletto, ma piuttosto alla fedeltà all’ ideale della Corona, e il conte di Hohenzollern suggerisce l’insondabilità della coscienza, perché è impossibile sapere che cosa avrebbe fatto il principe, se non fosse stato distratto dallo scherzo dell’Elettore e avesse quindi sentito gli ordini.
Un finale perfetto che chiude il dramma nel luogo dove era iniziato, nel giardino dove il principe sognava d’amore. Quando gli viene tolta la benda dagli occhi, Homburg non riesce a credere di essere ancora vivo e chiede, “E’ un sogno?”. “Un sogno, che altro?”, gli risponde Kottwitz.
Forse il tempo si è fermato alla sera in cui il principe ha inseguito pensieri d’amore, forse ha sognato tutto, la battaglia, la vittoria, la condanna a morte. Un’opera del primo 800 con una tematica tuttora attuale, in un’ottima edizione con testo a fronte e la traduzione di Rossana Rossanda che, rinunciando ai versi, alleggerisce il testo senza diminuirne la forza e l’essenza poetica.
Heinrich von Kleist, Il principe di Homburg, Ed. Marsilio, pp.269
HEINRICH VON KLEIST Il Principe di Homburg o dell’Etica
di Gioia Marzi
25 febbraio 2001
Alcuni mesi fa apparve sul Corriere della Sera un fondo di Francesco Alberoni su questioni di etica: “Ci sono persone..che vi dicono con chiarezza cosa possono o non possono fare..dicono la verità, non si difendono con le menzogne, non traggono in inganno…Se competono con voi lo fanno lealmente…Vi sono invece persone che non si sentono minimamente tenute a mantenere la parola data..fanno progetti e promesse in base all’utile immediato. Sono così abituati a mentire che lo fanno con leggerezza, con allegria, tanto da dare l’impressione di essere sinceri. Agiscono in base al puro principio di piacere…Non pensano minimamente agli altri. In sostanza non hanno nessun criterio morale interiore, sono a-morali”.
Una domanda
Mi chiedevo se con queste parole il sociologo volesse riferirsi alle strutture narcisistiche.
Peraltro, in questi anni di vorticoso proliferare di convegni sull’etica, non nascondo di aver a lungo liquidato la questione attribuendone il diffuso interesse, al contenzioso giudiziario così spesso attivato in materia di esercizio della professione.
Di qui la necessità di stabilire delle regole di comportamento, dei parametri di giudizio, dei criteri che statuissero ciò che è opportuno o meno fare, scomodando l’etica che storicamente non si limita solo a criteri descrittivi, ma propone anche criteri normativi.
Il film di Bellocchio “Il Principe di Homburg” e l’opera omonima di Kleist, pongono un drammatico quesito di ordine etico: può condannarsi al patibolo un colonnello che ha contravvenuto agli ordini anche se proprio questo ha portato l’esercito alla vittoria?
Questa è infatti, in sintesi, la vicenda raccontata da Kleist , ma il personaggio colpisce per la sequenza : incubazione, devastazione e ricomposizione post conflittuale.
I tempi
Dapprima si presenta come un ufficiale un poco sprovveduto, episodicamente eroico, ma disattento, improvvisatore e in preda a stati oniroidi , poi impatta nella realtà della condanna a morte.
Ma non è un vero prigioniero giacché il carcere è a porte aperte ed egli è libero di entrare, e non è un vero condannato perché ha facoltà di scegliere la grazia.
Il conflitto è introiettato e dilaniante: perdere la vita o perdere la dignità.
Quando egli realizza i termini dell’incoerenza (per salvare la vita dovrebbe riconoscere che la sentenza che lo condanna è ingiusta pur sapendo che, al contrario, egli ha veramente contravvenuto agli ordini in tempo di guerra) prende coscienza della sua identità di militare e ritrova i valori superegoici rappresentati dal Principe Elettore, suo Generale e Padre in effigie.
La questione è risolta, i valori interiorizzati funzionano automaticamente: scomparso ormai il giovanotto irresponsabile, comandante più per favori personali o meriti di casata, finiti gl’incubi notturni un po’ isterici, di connotazione romantica, decaduti i corteggiamenti gaglioffi si erge l’uomo…che, però, affronta il patibolo.
Per il contemporaneo è un assurdo:
sembra che l’estrema rigidità del sistema debba giungere alla frattura e al passaggio all’inanimato e lo stesso Kleist (che morirà suicida pochi mesi dopo la stesura di questo dramma) deve ricorrere a un “deus ex machina” per risolverla, facendo risultare alla fine che il giovane Principe era in uno stato sognante.
Ma qual’è il messaggio etico del Principe di Homburg?
Sta nell’aderire alla realtà per quanto essa sia dura e paradossalmente mortifera, con rinuncia all’onnipotenza narcisistica.
Abraham Yehoshua nel suo recente libro “Il potere terribile di una piccola colpa” reintroduce la questione morale in ambito letterario sostenendo che l’approccio psicologico avrebbe dato un colpo di spugna al sistema di valori interiorizzato e condiviso privilegiando la dimensione soggettiva e spiegandone le ragioni fin dove possibile. Questo procedimento di conoscenza porterebbe con sé il passaggio a una sorta ”di giustificazione: io uccido, ma è perché ho visto uccidere; io tradisco, ma è perché sono stato tradito”. Anche in giurisprudenza queste operazioni possono portare alle circostanze attenuanti la colpa.
Ma l’approfondimento della dimensione soggettiva…
…che è poi quello che si fa in psicoanalisi, è un imprescindibile lavoro di conoscenza, ed implica il conseguimento di un rapporto rinnovato e meno conflittuale con il reale e il condiviso. Anzi, l’operazione, se ben condotta, porta con sé il buon ritorno.
Forse in questo senso si spiega l’elaborazione che Kleist fa fare al suo personaggio: egli vive uno stato sognante in cui fantasie, desideri, angosce hanno una parte importante e il confronto con la realtà é sporadico e frustrante. E’ una condizione adolescenziale in cui il giovane vaneggia l’amore e l’eroismo, ma la battaglia è sporca e cruenta e la donna distante e ingessata.
La frustrazione forza il soggetto all’uscita dal narcisismo, all’accesso alla relazione d’oggetto e al contatto con la realtà: nelle relazioni si stabiliscono i costumi (exos) e, dunque, nella relazione d’oggetto, crogiolo di tutte le altre, nasce l’etica.
Gli individui che non hanno accesso alla relazione d’oggetto sono fissati in una posizione narcisistica e , per quanto si sforzino di adottare dei comportamenti socialmente adeguati, mantengono sempre un fondo di “amoralità” nell’impossibilità di riconoscere l’altro in quanto tale e di accoglierne le istanze.
Da http://www.psicoanalisi.it/psicoanalisi/psichiatria/articoli/psichiatri…
Ringraziamo il Dott. Quirino Zangrilli e l’autrice Gioia Marzi per il permesso alla pubblicazione.
© Gioia Marzi
Von Kleist: Il Principe di Homburg
Homburg, ribelle e sognatore
Da Kleist a Bellocchio un eroe romantico ai margini della psicanalisi
di Francesco Tei che ringraziamo per il permesso alla pubblicazione
Federico Arturo, principe di Hessen Homburg, eroe immaginario dell’esaltazione e della più fiammeggiante passione romantica, viene salvato, alla penultima scena, dalla condanna a morte decretata dall’Elettore di Brandeburgo e dalla Corte Marziale. Il creatore del principe, Heinrich von Kleist, morì – invece – davvero, il 21 novembre del 1811, suicida con un’amica, un anno dopo avere terminato proprio il dramma in versi e in cinque atti
Il principe di Homburg, incentrato appunto sulla figura di un riconoscibile alter ego del suo irrequieto e tormentato autore: una proiezione, non solo letteraria, di come Kleist si sentiva o forse di come avrebbe sognato di essere.
Von Kleist: Il Principe di Homburg
LA PROSPETTIVA SUPERIORE DELL’ASSOLUTO
Come altri personaggi dello scrittore, il giovane e impetuoso comandante di cavalleria Homburg è preda di accensioni estreme, inarrestabili, patologiche: al tempo stesso, però, si rapporta con la prospettiva superiore di un assoluto – una giustizia, una disciplina, una Legge suprema – alla quale aderisce fino in fondo, a prezzo dell’esistenza. Esistenza che il principe sacrifica (o meglio, arriverebbe a sacrificare) di buon grado, anzi vedendo nella morte il compimento della sua smania di consacrazione e di assoluto, mentre – per esempio – un Michael Kohlaas, protagonista dell’omonimo racconto di Kleist, dedica tutta quanta, senza curarsi più di altro, al conseguimento di quell’agognato e dovuto atto di riparazione e di giustizia che è diventato lo scopo maniacale del suo vivere.
Von Kleist: Il Principe di Homburg
UNA DISCIPLINA SOVRUMANA
E’ curioso, ma non illogico, che Heinrich von Kleist, per tutta la vita in violenta rivolta contro l’autorità e contro tutte le figure che la incarnavano (voleva – si dice – pugnalare Napoleone, nemico fatale della sua Germania, odiava e attaccava il nume letterario Goethe da cui pure voleve essere apprezzato) abbia chiuso la sua vicenda creativa con un dramma che è la celebrazione dell’autorità e della più rigorosa, quasi sovrumana disciplina.
Immediato, del resto, salta ai nostri occhi il significato psicoanalitico del legame tra il principe e l’Elettore che decide la sua morte, portatore dell’autorità ma anche figura paterna; dichiaratamente tale, visto che il principe nel suo delirio-sogno-sonnambulismo iniziale lo chiama per l’appunto “padre”. Proprio, però, facendo perno sul sonnambulismo, sugli sconfinamenti nel delirio, sul cedimento perenne alla dimensione del sogno del giovane principe, Marco Bellocchio ha puntato, nel film, in misura maggiore sull’aspetto della fragilità patologica, febbrile dell’eroe, sulla sua estraneità irrimediabile al reale, che riesplode – dopo una lunga parentesi di apparente coscienza riaffiorata nell’accettazione lucida (?) della condanna – nel monologo conclusivo e in quel sogno puro, visionario, che diventa il finale, l’ambiguo “happy end” del dramma di Kleist.
Eppure Bellocchio, almeno in parte, si allontana – qui – dall’”ortodossia” della psicoanalisi di Massimo Fagioli, dalle sue lezioni sull’inconscio che hanno segnato, da un certo punto in poi, in maniera indelebile lui e la sua attività creativa. Anche se il legame con Fagioli non si è certo interrotto.
Marco Bellocchio: IL CINEMA, UNA SCOMMESSA STIMOLANTE
Lavorare sul teatro, per il cinema, è sempre un’operazione difficile, ingarbugliata, ma invogliante e stimolante come una scommessa. Tutto sommato, Bellocchio con questo suo Il principe di Homburg cinematografico (che cita, anche nel titolo, l’autore del testo teatrale drammatico) ci è riuscito abbastanza bene; dando forma a una creazione originale e – insieme – dal respiro affascinante, ricca, come dire, di vibrazioni e di palpiti che conquistano, alla lunga, qualsiasi spettatore sensibile e non distratto.
Buono il risultato del taglio drastico, e rischioso, del copione di Kleist (tranciato veramente di brutto almeno in un paio di atti), perché, ci viene da dire, non viene sacrificato nulla dello spirito più vero e essenziale dell’opera. Sbagliata soltanto la brutale mutilazione della scena della battaglia, che ne rende difficile da capire sia l’andamento che l’esito (che forse, invece, avrebbero qualche importanza…). Ma ci pare che si tratti quasi di una rimozione, di un rifiuto significativo di raccontare dettato da motivi non logici, interiori, profondi, che peraltro non si riescono né a seguire né a comprendere.
Nel complesso, Bellocchio
compie nel suo film una operazione opposta a quella che viene compiuta oggi da tutti i registi – famosi e non – che lavorano per il teatro che cambiano, spostano, sovvertono del tutto l’ambientazione, scenica e visuale, storica e geografica, curando al tempo stesso di mettere in luce quanto il testo resti, nella sua classicità, del tutto valido, attuale, universale; rivelando, anzi, proprio una volta trasferito in una cornice inattesa i suoi valori svincolato dal tempo e la sua natura adattabile ai più diversi contesti.
Bellocchio, al contrario, agisce – anche se senza arbitrii, in maniera intima, quasi, attenta, sfumata – sull’anima, sull’essenza ultima della vicenda, incastonata però in una cornice di assoluto ed esatto rigore storico e geografico, attentissimo ai particolari scenografici e ai costumi dell’epoca. Una “fedeltà” (che ha solo un paio di cedimenti in voluti tocchi visionari e non realistici) che è praticamente scomparsa, e non da oggi, nel panorama del mondo del teatro.
Ma il cinema, ed il cinema italiano in particolare,
mostrano – in questo film – di avere anche molto da prendere, e da imparare, dal mondo rinnegato del palcoscenico. Ed è un discorso, il nostro, che assume anche contorni e dimensioni più generale, al di là del solo Principe di Homburg. Colpisce vedere degli attori di teatro come Toni Bertorelli (l’Elettore) e Anita Laurenzi (l’Elettrice), o Italo Dall’Orto (Dorfling), che funzionano – anche come facce! – e alla grande sullo schermo, e danno vita con disinvolta naturalezza a scene di un’energia e di una forza robusta, quadrata, del tutto inconsuete per il nostro cinema, dal punto di vista degli attori un po’ fiacchino, troppo spesso.
Una prova, se ce ne fosse bisogno, di quanto sarebbe opportuno un travaso più frequente di interpreti e di volti dal palcoscenico allo schermo, anche qui da noi, che porterebbe subito a una crescita formidabile del livello di professionalità e di tensione espressiva della recitazione davanti alla macchina da presa (la diffidenza e la chiusura verso gli attori di teatro non hanno, ormai, più ragione d’essere: a patto, naturalmente, che questo attori siano bravi, e non inutili alfieri di un superato accademismo). A proposito: può sembrare ingeneroso il sottolinearlo, ma è anche l’accostamento a attori teatrali di grande tecnica e spessore come quelli citati che fa apparire ancora di più inadeguato, se non come faccia e come presenza, un Andrea Di Stefano che non è assolutamente all’altezza appena deve recitare con la parola, affrontando con il suo accento laziale le dense battute del principe.