Pensieri, emozioni, riflessioni, aforismi e quant’altro ci piace ricordare di Grotowski, Barba, Schopenauer, Rilke, Artaud e altri…
Pensieri
emozioni, riflessioni, aforismi e quant’altro ci piace ricordare di
Alschitz – Andreev – Artaud – Barba – Brook – Caikovskij – Cechov M. – Decroux – Grotowski – Ibsen – Lermontov – Nordbrandt – Plutarco – Potocki – Puskin – Rilke – Schiller – Schopenauer – W. Szymborska – Witkiewicz
Yuri ALSCHITZ
(regista, assistente di Anatolij Vasilev alla Scuola d’Arte Drammatica di Mosca)
Testo da La Grammatica dell’Attore – Il Training (Ubulibri)
Diario 95. “Stoccolma in autunno. Non vedono, non sentono. È ridicolo e assurdo pretendere da loro che diventino un ensemble di artistI; così come non si può pretendere da una lumaca che esca fuori dal suo guscio.
La vita si organizza per proprio conto, e non siamo noi a organizzare lei, come a volte ci sembra. E non può essere che, allo stesso modo, l’idea di arte consista proprio nel fatto che la natura stessa si organizza da sola, e cioè che l’opera stessa si crei da sola? Se veramente è così: allora, la cosa migliore è limitarsi a non ostacolarne il processo di crescita, è semplicemente creare le condizioni dalle quali può scaturire la vita; è organizzare l’ambiente in cui può nascere una creazione…”
“…Oggi chiacchieravo con degli attori svedesi a proposito del senso e dello scopo della professione di regista. E mi è piaciuto il risultato a cui sono arrivato alla fine. Con molta immodestia… ma mi è effettivamente piaciuto. Per essere più precisi ha migliorato il mio umore. Ecco, sono seduto e mi rallegro in solitudine. Scribacchio.
Parlavo della professione dell’attore e mi è venuto in mente il mio cammino . All’ inizio in teatro mi sono occupato del lato visivo della vita scenica, della costruzione di tutti gli effetti possibili dei trucchi e così via: questo è un inizio naturale per un giovane regista. La vita attorno a me.
Poi sono stato preso sempre di più dal problema della mia vita e dell’ incarnazione della mia personale percezione del mondo sulla scena: organizzavo il mio mondo e volevo che ci vivessero altre persone. Ma loro non sempre potevano o volevano farlo. Tuttavia questo era già il gradino successivo: la mia vita.
Un ulteriore livello professionale, più complesso, cominciò quando riconobbi nella regia l’organizzazione della vita interiore dell’uomo. La vita altrui.
Ma molto di recente sono arrivato alla conclusione che sulla scena non c’è bisogno di organizzare né la propria, né l’altrui vita. Né quella esteriore, né quella interiore, per quanto questo possa lusingare la vanità del regista.
‘E allora qual é il senso di questa professione?’ mi hanno chiesto gli attori.
‘Mi sembra che consista’, ho risposto, ‘nel creare le condizioni da cui ha origine la vita, e poi semplicemente nell’osservarla e nel conservarla così com’è.
La missione del regista consiste nel creare un clima particolarmente adatto alla nascita di nuovi germogli una stagione propizia affinché le cose NASCANO. Per fare in modo che le foglie spuntino da sole, mentre l’anima ruzza e salta come una ragazzina di quindici anni. Pensate che sia semplice organizzare una primavera?
Dimostrare a tutti che si può ricominciare dal principio, e farli correre tutti non si sa bene dove? No, non è semplice, ma mi sembra che sia in questo l’essenza della professione registica: organizzare la primavera.’
Con questo ho concluso la conferenza e sono rimasto soddisfatto di me stesso per un’ oretta. Poi me ne sono andato da solo in albergo sotto la pioggia novembrina e mi è venuto in mente con una certa malinconia: ecco, ora viene a trovarmi il mio amico dei tempi della scuola e mi racconterà delle conquiste che ha fatto nella vita, e andandosene mi chiederà: ‘E tu che hai fatto?’ Che cosa gli risponderò? ‘Ho organizzato la primavera?’ “
L.N. ANDREEV
(1871-1919)
Testo da La Vita dell’Uomo (Quadro secondo) -1906
…No, no, non voglio lacrime!…
…Ho paura di quelle gocce limpide e cristalline:
come se qualcuno, ignoto e spaventevole, le facesse cadere.
Io non voglio che tu pianga…
Io t’incanterò con una fiaba luminosa, ti circonderò di sogni sereni come di rose, o mia regina
A. ARTAUD
(Marsiglia, 4 settembre 1896 – Ivry, 4 marzo 1948)
Testo da “Il teatro e il suo doppio”. [Torino: Einaudi, 1968].
“I Russi praticano da gran tempo l’uso di un certo metodo d’improvvisazione che spinge l’attore a lavorare con la propria sensibilità profonda, a esteriorizzare questa sensibilità reale e personale con parole, atteggiamenti, reazioni mentali inventate per l’occasione, improvvisate”
“Concepiamo il nostro teatro come una vera operazione di magia. Non ci rivolgiamo agli occhi, né all’emozione diretta dell’anima; quello che cerchiamo di suscitare è una certa emozione psicologica, in cui saranno messi a nudo gl’impulsi più segreti del cuore”
“Per il teatro come per la cultura, ciò che conta è dare un nome alle ombre e guidarle”
“L’idea di un teatro serio che, sconvolgendo tutti i nostri preconcetti, ci trasmetta l’ardente magnetismo delle immagini e agisca su di noi come una terapeutica spirituale la cui azione lasci per sempre la sua impronta. Tutto ciò che agisce è crudeltà
“Il teatro, che a nostro parere si identifica in sostanza con le forze dell’antica magia”
“Scomparirà l’antico dualismo fra autore e regista, sostituiti da una sorta di Creatore unico, cui spetterà la doppia responsabilità dello spettacolo e dell’azione”
“Affideremo allo spettacolo, e non al testo, il compito di materializzare e soprattutto di rendere attuali gli antichi conflitti; in altri termini i temi saranno portati direttamente sulla scena e materializzati”
“Dal punto di vista dello spirito, crudeltà significa rigore, applicazione e decisione implacabile, determinazione irreversibile, assoluta [… ] La crudeltà è prima di tutto lucida, è una sorta di rigido controllo, di sottomissione alla necessità. Non si ha crudeltà senza coscienza, senza una sorta di coscienza applicata. [… ] Uso il termine crudeltà nell’accezione di appetito di vita, di rigore cosmico, di necessità implacabile, nel significato gnostico di turbine di vita che squarcia le tenebre, nel senso di quel dolore senza la cui ineluttabile necessità la vita non potrebbe sussistere […] Mi sembra infatti che la creazione e la stessa vita possano essere definite soltanto da una sorta di rigore, e quindi da una fondamentale crudeltà, che conduce a qualunque costo le cose alla loro ineluttabile conclusione”
“Propongo che si ritorni attraverso il teatro a un’idea della conoscenza fisica delle immagini e dei mezzi per provocare trances”
“Propongo di agire sugli spettatori come gli incantatori di serpenti e di far loro ritrovare attraverso l’organismo le sensazioni più sottili”
“Il nudo linguaggio del teatro, linguaggio non virtuale ma reale, deve permettere, facendo appello al magnetismo nervoso dell’uomo, di violare i consueti limiti dell’arte e della parola, per realizzare attivamente, cioè magicamente, in termini reali, una sorta di creazione totale in cui all’uomo non rimane che riprendere il proprio posto tra il sogno e gli avvenimenti”
“Per sfruttare la propria affettività – come un lottatore si serve dei suoi muscoli, bisogna considerare l’essere umano come un Doppio, come il Ka delle Mummie egiziane, come uno spettro perpetuo dal quale s’irradiano le forze dell’affettività. Uno spettro plastico e mai totalmente realizzato, di cui il vero attore imita le forme, imponendogli le forme e l’immagine della propria sensibilità. Su questo doppio il teatro esercita la sua influenza, modellando questa effige spettrale; e come tutti gli spettri questo doppio ha la memoria lunga. La memoria del cuore è duratura, ed è certo col cuore che l’attore pensa; ma qui il cuore è preponderante”
“In questo teatro ogni creazione viene dalla scena, trova la sua traduzione e le sue origini in un impulso psichico segreto che è la Parola prima delle parole […] Tutto ciò è come un esorcismo per fare affluire i nostri demoni”
“E perchè non si potrebbe pensare a una commedia composta direttamente sulla scena, realizzata sulla scena?”
“Sulla scena l’inconscio non avrà un luogo specifico. E’ già abbastanza grande la confusione che esso produce, a cominciare dall’autore, poi da parte del regista e degli attori, e fino agli spettatori. Tanto peggio per gli analisti, i cultori dell’anima e i surrealisti. E tanto meglio per tutti. I drammi che noi daremo si pongono decisamente al riparo da qualsiasi commentatore segreto”
“In questo modo il teatro smette di essere un gioco, lo svago di una serata effimera, per diventare una specie di atto utile, e assumere il valore di una vera e propria terapeutica, quella a cui nell’antichità le folle venivano ad attingere il gusto di vivere e la forza di resistere agli assalti della fatalità”
“Il pubblico: Bisogna prima di tutto che questo teatro sia”
Eugenio BARBA
(1936)
Testo da “Aldilà delle isole galleggianti”, Ubulibri, Milano, 1985, p. 93.
E’ il contesto che decide del significato delle parole. Una parola può solo essere precisa. L’origine di questo termine indica qualcosa di ben distinto, così ben tagliato da non poter essere sostituito da nient’altro.
Si potrebbe dire che il significato di essere attore è affrancarsi. Sono molti gli esempi storici in cui è possibile constatare che, tramite la sua professione, l’attore si affrancava, in un senso molto concreto, sociale e economico. Un affrancamento non in senso vagamente psicologico, ma nel senso di: zone franche, en franchise de port, e forse anche nel senso di langue franche.
Forse un filosofo potrebbe dire che gli attori (o certi attori) significano in maniera fisica, attraverso un lavoro quotidiano, il disagio e persino la ripugnanza a accettare la realtà della propria epoca: la loro scelta, prima dei loro spettacoli, dice la loro incapacità a soddisfare i propri bisogni nella “vita reale”; o il loro desiderio di non immettersi nelle “utilità del proprio tempo”. Soltanto in futuro qualcuno potrà decifrare quale era il significato, quali tracce ha lasciato la zone franche dell’attore, che ha scelto l’esercizio di un lavoro che scompare con lui.
“Non è l’esercizio in se stesso che conta – per esempio fare delle flessioni o dei salti mortali – ma la giustificazione data da ciascuno al proprio lavoro, una giustificazione che, anche se banale o difficile da spiegare […], è fisiologicamente percettibile, evidente per l’osservatore”.
“Se non faccio training per un giorno, solo la mia coscienza lo sa; se non lo faccio per tre giorni, solo i miei compagni lo notano; se non lo faccio per una settimana, tutti gli spettatori lo vedono.”
Peter BROOK
(1925)
brook
Testo da “Il punto in movimento”
“Non ho mai creduto in un’unica verità, né in quella mia né in quella degli altri; sono convinto che tutte le scuole, tutte le teorie possono essere utili in un dato luogo e in una data epoca; ma ho scoperto che è possibile vivere soltanto se si ha un’ardente e assoluta identificazione con un punto di vista.
A mano a mano che il tempo passa, che noi cambiamo, che il mondo cambia, tuttavia, gli obiettivi si modificano e il punto di vista muta. Rivedendo i saggi scritti nell’arco di molti anni e le idee esposte in tante occasioni e nelle più disparate, qui riuniti, mi colpisce ciò che in essi rimane costante. Se vogliamo, infatti, che un punto di vista sia di qualche aiuto, bisogna dedicarvisi con tutte le nostre forze, difenderlo fino alla morte. Nello stesso tempo, però, una voce interiore sussurra: `Non prenderti troppo sul serio. Tienti forte e lasciati andare con dolcezza'”.
CAIKOVSKIJ
(1840-1893)
Da alcune delle lettere sulla composizione della partitura per L’Eugenij Onegin di Puskin.
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“….Presto mi decisi a mettermi subito in cerca delle opere di Puskin. Trovarle non fu tanto facile; ma a leggere quella ne rimasi incantato. Passai una notte insonne; e il risultato fu uno schema di una deliziosa opera basata sul testo di Puskin…
Non puoi avere idea di come io sia impazzito per questo soggetto. Che bellezza evitare i soliti faraoni, principesse etiopi, coppe avvelenate e il resto di queste storie di burattini! L’Evgenij Onegin è pieno di poesia. Vedo i suoi difetti: so bene che non lascia grande spazio a eventi, e mancherà di effetti teatrali; ma la ricchezza della sua poesia, la sua semplicità e umanità, insieme con gli ispirati versi di Puskin, compenseranno qualsiasi manchevolezza.”
“…Il contenuto è molto ingenuo, non c’è nessun effetto scenico, la musica è priva di splendore e di elaborati artifici. Tuttavia mi pare che alcuni eletti, ascoltando questa musica, saranno forse commossi dalle stesse sensazioni che mi hanno turbato quando l’ho scritta. Non intendo con questo dire che la mia musica è così eccellente da essere inaccessibile per le spregevoli masse. Secondo me, bisogna scrivere obbedendo alla propria immediata inclinazione, non pensando affatto a compiacere una parte o l’altra dell’umanità. Ho scritto l’ Onegin senza nessuno scopo secondario. Ma cos’è successo, che l’Onegin non presenterà interesse per il teatro. Per questo coloro per i quali la cosa più importante in un’ opera è il movimento scenico, non ne saranno soddisfatti. Ma chi sta cercando in un’ opera, – espressi dalla musica – sentimenti non tragici e teatrali, ma ordinari, semplici, comuni a tutti gli uomini, può, lo spero, essere soddisfatto dalla mia opera. In una parola, essa è scritta genuinamente, e io ripongo tutte le mie speranze in questa genuinità…”
“…Sull’ effetto io ci sputo! E poi, cos’ è l’effetto? Per esempio, se l’Aida fa effetto, io vi assicuro che non comporrei un’opera su un soggetto simile per tutto l’oro del mondo: perché voglio avere a che fare con esseri umani, non con fantocci. Volentieri scriverei un’ opera completamente priva di effetti sensazionali, ma che offrisse come personaggi dei miei simili, tali ch’io potessi condividerne e intenderne i sentimenti. Nei sentimenti di una principessa egiziana, di un faraone o di qualche nubiano pazzo io non sono capace di entrarci: non li capisco. Tuttavia un istinto mi dice che costoro devono aver sentito, agito, parlato, espresso se stessi in modo del tutto differente da noi…
Voi mi domanderete che cosa vado cercando. Ve lo dico subito. Anzitutto niente re, niente folle, niente dèi, niente marce pompose: in una parola, niente di quelle cose che costituiscono gli attributi del grand opéra. lo cerco un dramma intimo anche se emozionante, basato su un conflitto di circostanze quale io stesso abbia potuto sperimentare od osservare, un conflitto che possa toccarmi sul vivo. Non ho niente da dire contro l’elemento fantastico, perché non è una limitazione, ma al contrario apre una illimitata libertà.
Forse non mi spiego troppo bene. Per farla breve, sento Aida così lontana, il suo amore per Radamès mi commuove così poco (dal momento che non riesco a ritrarlo dentro di me) che con un simile soggetto la mia musica mancherebbe del colore necessario. Non molto tempo fa ho visto a Genova L’Africana. Questa povera africana, quante ne deve patire! Schiavitù, prigionia, morte sotto un albero avvelenato, e all’ultimo la vista della rivale trionfante; eppure non mi ha fatto compassione neanche un momento! E quanti effetti: una nave, una battaglia, ogni sorta di imbrogli! Ma poi, a che servono?
[. . . ] L’opera Onegin non avrà mai successo: di questo sono già sicuro…. Quest’opera non ha avvenire! Ne sono stato perfettamente consapevole nello scriverla… Essa è il risultato di un invincibile impulso interno; e vi assicuro che un’ opera si può comporre solo in queste condizioni….
Ieri ho suonato tutto l’Evgenij Onegin, dal principio alla fine. Il solo ascoltatore era l’autore. E quasi mi vergognavo di quello che sto per confidarti in segreto: l’ascoltatore si commosse fino alle lagrime, e fece all’ autore mille complimenti. Se le platee future davanti a questa musica sentissero ciò che l’autore ha sentito!
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M. Cechov
(1891 – 1955)
M. Cechov
…nipote di Anton Cechov…insieme a Sulerzickij, Smysljaev, Suskevic, Vachtangov, è uno dei testimoni del Primo Studio del Teatro d’Arte di Mosca: il luogo deputato dove le rivoluzionarie teorie teatrali di Stanislavskij venivano studiate, sperimentate, si traducevano in spettacoli.
Il brano che segue è tratto da “O rabote aktera nad soboj”, articolo apparso su “Gorn”, 4, 1919
“…Lavorando su di sé, l’attore sviluppa l’agilità della propria anima.
L’analisi del fatto creativo ci ha mostrato due serie di fatti. Gli uni li abbiamo chiamati fatti ostacolanti, gli altri aiutanti lo stato creativo. L’eliminazione dei primi e la scelta dei secondi conduce l’attore allo stato creativo. Affinché l’attore possa scegliere gli uni e scartare gli altri a proprio desiderio, deve possedere una particolare tecnica spirituale, un’ agilità spirituale.
L’elaborazione e l’acquisizione di questa capacità, di questa tecnica spirituale che permetta all’ attore di padroneggiare in ogni momento, secondo il proprio desiderio, il proprio stato creativo (o, in circostanze particolarmente sfavorevoli, avvicinarsi ad esso) è il compito del lavoro dell’attore su di sé.
Il perfezionamento dell’attore in questo senso è illimitato. Da una parte, davanti a lui, vi sarà sempre l’ideale di una tecnica spirituale a cui tenderà, dall’altra le sofferenze dei fatti che abbiamo chiamato ostacolanti. Le più diverse forme saranno accolte man mano che la tecnica spirituale dell’ attore percorrerà la strada del perfezionamento. E non una volta soltanto l’attore scoprirà con meraviglia sotto quale bella e veritiera maschera si nascondono nello spirito gli stampi e altri suoi nemici. Tutto questo per dire che il lavoro dell’ attore su di sé può e deve durare tutta la vita.
Un piccolo chiarimento: cosa sono questi fatti aiutanti lo stato creativo? Niente di diverso che elementi, parti componenti lo stato creativo, necessari alla sua condizione. In questo modo, d’ora in avanti, potremo parlare non di fatti aiutanti, ma di elementi dello stato creativo, e, prima d’ogni cosa, della concentrazione come di uno degli elementi fondamentali…”
Etienne DECROUX
(1898-1991)
Da “Parole sul Mimo” di Etienne Decroux – Dino Audino Editore, capitolo XVIII, pag. 144
“….Avrei voluto anche dimostrare agli attori che vantaggio sarebbe per loro se praticassero la nostra arte. Ma come si fa a dire in un solo giorno tutto quanto vorrei dire: devo rinunciarvi.
Ecco almeno una sintesi della mia idea, a grandi linee:
l’attore non è altro che un mimo;
il mimo è una vera tecnica;
la tecnica immunizza chi la possiede da due arbitri: quello della moda e quello del maestro;
la tecnica elimina i mediocri, fa buon uso del talento medio ed esalta il genio “
Jerzy GROTOWSKI
(Rzeszov – Polonia 1933 – Pontedera – Italia 1999)
Grotowski
“Non è il teatro che è necessario, ma assolutamente qualcos’altro. Superare le frontiere tra me e te: arrivare ad incontrarti per non perderti più tra la folla, né tra le parole, né tra le dichiarazioni, né tra idee graziosamente precisate, rinunciare alla paura ed alla vergogna alle quali mi costringono i tuoi occhi appena gli sono accessibile “tutto intiero”. Non nascondermi più, essere quello che sono. Almeno qualche minuto, dieci minuti, venti minuti, un’ora. Trovare un luogo dove tale essere in comune sia possibile…”
“Aprirsi a un altro essere rendendo possibile il fenomeno di una «nascita condivisa o doppia». L’attore nasce di nuovo – non solo come attore ma come uomo – e con lui io rinasco. E’ un modo goffo di esprimerlo, ma quello che si ottiene è l’accettazione totale di un essere umano da parte di un altro
“L’essenza del teatro è costituita da un incontro. L’individuo che compie un atto di auto-penetrazione, stabilisce in qualche modo un contatto con se stesso. […] Il teatro è anche un incontro fra gente creativa”
“La partitura dell’attore è composta di componenti di contatto umano; «dare e prendere». Prendere gli altri, stabilire un confronto con se stessi, con la propria esperienza e i propri pensieri, e dare una risposta”
“Se il vostro ricordo è legato a un peccato vi sentirete, poi, liberati da esso. E’ in un certo senso una redenzione”
“Che cos’è un’associazione, nel nostro mestiere? E’ qualcosa che scaturisce non solo dalla mente ma anche dal corpo. E’ il ricollegarsi a un ricordo preciso: non analizzatelo razionalmente, poichè i ricordi sono sempre reazioni fisiche. E’ la nostra pelle che non ha dimenticato, i nostri occhi che non hanno dimenticato. Ciò che abbiamo udito può ancora risuonare dentro di noi. Bisogna compiere un atto concreto, non un movimento come accarezzare in generale, ma, per esempio, accarezzare un gatto. Non un gatto astratto, ma un gatto che ho visto, con cui ho dei rapporti. Un gatto con un suo nome particolare – Napoleone, se volete. Ed è proprio questo particolare gatto che adesso sto accarezzando. Ecco cosa sono le associazioni d’idee”
“Io mi sono preparato prima per diventare attore e poi per diventare regista”
“Non credo che il mio lavoro a teatro possa essere definito col nome di nuovo metodo. Si può chiamare metodo, ma è una parola molto limitata. Non ritengo neppure che si tratti di qualcosa di nuovo. Penso che questo genere di ricerca sia esistito più frequentemente all’esterno del teatro., benchè sia talvolta esistito anche in certi teatri. Si tratta del cammino della vita e della conoscenza. E’ molto antico. Si manifesta, viene formulato a seconda dell’epoca, del tempo, della società. Non sono sicuro che coloro che eseguivano le pitture della grotta Trois Frères volessero unicamente fare fronte allo sgomento. Forse … ma non solo. E penso che lì la pittura non fosse il fine. La pittura era la via. In questo senso mi sento assai più vicino a colui che dipinse quel disegno rupestre che agli artisti a cui sembra di creare l’avanguardia del nuovo teatro”
“Vi è qualcosa di incomparabilmente intimo e fruttuoso nel lavoro che svolgo con l’attore che mi è affidato. Egli deve essere attento, confidente e libero, poiché il nostro lavoro consiste nell’esplorazione delle sue possibilità estreme. La sua evoluzione è seguita con attenzione, stupore e desiderio di collaborazione: la mia evoluzione è proiettata in lui, o meglio, è scoperta in lui, e la nostra comune evoluzione diventa rivelazione […]. Un attore nasce di nuovo – non solo come attore ma come uomo – e con lui io rinasco. E’ un modo goffo di esprimerlo ma quello che si ottiene è l’accettazione totale di un essere umano da parte di un altro”
«Eliminando gradualmente tutto ciò che è superfluo, scopriamo che il teatro può esistere senza trucco, costumi e scenografie appositi, senza uno spazio scenico separato (il palcoscenico), senza gli effetti di luce e suono… Non può esistere senza la relazione con lo spettatore in una comunione percettiva, diretta. Questa è un’antica verità teoretica, ovviamente. Mette alla prova la nozione di teatro come sintesi di disparate discipline creative: la letteratura, la scultura, la pittura, l’architettura, l’illuminazione, la recitazione…»
«Siamo arrivati alla conclusione […] che dobbiamo abolire il biglietto di ingresso: coloro che vengono da noi dovrebbero pensare di recarsi in un luogo speciale dove è possibile lasciarsi alle spalle la propria vita quotidiana […], dove possiamo essere completamente noi stessi.»
“Per quanto il teatro possa estendere e sfruttare le proprie risorse meccaniche esso rimarrà pur sempre inferiore sul piano tecnologico al cinema e alla televisione” (Per un teatro povero, J.G.) 1965.
H. IBSEN
(Skien,Norvegia 1828 – Oslo 1906)
Ibsen
Testo dal Peer Gynt (1867) Atto V quadro 6
(Peer, ormai vecchio, torna li da dove era partito)
I GOMITOLI- Noi siamo i pensieri/ che avresti dovuto pensare/ Avremmo voluto,/ per far della strada, dei piedi.
PEER- Ad uno di voi/ ho dato vita…/ e cosa ne è nato?/ Un maledetto storpio
LE FOGLIE SECCHE – Noi siamo gli aforismi/ che tu dovevi dire./ Invece ci hai costrette/ a stare inoperose./ Siamo ridotte, adesso,/ come qui tu ci vedi:/ dai vermi divorate,/ sul punto di marcire/ e mai potremmo fare/ corona intorno a un frutto!.
PEER – Non è del tutto inutile/ l’avervi fatto nascere:/ allegre, servirete da concime!
BISBIGLI NELL’ARIA – Noi siamo le canzoni/ che non hai mai cantato./ Perché ci hai soffocate?/ Perché non ci hai cantate?/ Nel fondo del tuo cuore/ ansiose, aspettavamo./ Perché non ci hai chiamate?/ Perché ci hai soffocate?/ Veleno nella gola/ saremo noi per te…
LE GOCCE DI RUGIADA – Siamo le lacrime/ che non hai mai versato./ Avremmo sciolto il ghiaccio/ che t’incrostava il cuore!/ ormai s’è fatto duro,/ è troppo anche per noi./ Non c’è niente da fare
I RAMI SPEZZATI – Siamo le grandi imprese/ che tu potevi compiere:/ t’ha trattenuto il dubbio,/ quel dubbio che ci ha uccise./ Verremo tutte assieme,/ quando starai morendo,/ verremo ad accusarti,/ ti narreremo tutto./ Vedrai, saran dolori!
PEER – Canaglie, come osate?/ Vorreste addebitarmi/ pure/ quello che non ho fatto?
M. LERMONTOV
(Mosca 15 Ottobre 1814 – Pjatigorsk, Caucaso, 27 Luglio 1841)
Testo da “Un Eroe del Nostro Tempo” (1840)
Furono i Francesi, vero, ad introdurre la moda di annoiarsi?-
-No, gli Inglesi!-
NORDBRANDT
(Frederiksberg – Danimarca – 1945)
Non cercare nessuna verità qui. Queste poesie sono l’opera di una mano che si è mossa per qualche giorno a novembre, o ha tremato per l’umore del suo signore, per il caffè, le sigarette, il vino, le nuvole sulla valle, la morte degli amici e gli annunci di guerre
PLUTARCO
Cheronea, ca. 46 – 127 – (Ci scusiamo ma di questo autore non abbiamo foto)
Plutarco
Testo da: Plutarco, Fragmenta 168 Sandbach = Stobeo 4, 52, 49.
“Al momento della morte l’anima prova un’esperienza simile a quella di coloro che sono iniziati ai misteri … All’inizio vagare smarriti, faticoso andare in cerchio, paurosi percorsi nel buio, che non conducono in alcun luogo. Prima della fine il timore, il brivido, il tremito, i sudori freddi e lo spavento sono al culmine. E poi una luce meravigliosa si offre agli occhi, si passa in luoghi puri e prati dove echeggiano suoni, dove si vedono danze; solenni sacre parole e visioni divine ispirano un rispetto religioso. E là l’iniziato, ormai perfettamente liberato e sciolto da ogni vincolo, si aggira, incoronato da una ghirlanda, celebrando la festa insieme agli altri consacrati e puri, e guarda dall’alto la folla non iniziata, non purificata nel fango e nelle tenebre, e, per timore della morte, attardarsi fra i mali invece di credere nella felicità dell’aldilà”.
Jan Nepomucen POTOCKI
(Pików, 8 marzo 1761 – Uładówka, 2 dicembre 1815)
Testo da “Manoscritto trovato a Saragozza”, 1805 ( Rekopis znaleziony w Saragosie )
Terza giornata
Storia di Alfonso van Worden
….Regnava allora nell’esercito spagnolo un certo concetto del punto d’onore, spinto fino al più eccessivo scrupolo; mio padre andava ancora al di là di quest’eccesso, e in verità non si può biasimarlo, poiché l’onore è l’anima e la vita di un militare. A Madrid non si faceva un solo duello di cui mio padre non regolasse il cerimoniale, e quando lui diceva che le scuse erano sufficienti, ognuno si riteneva soddisfatto. Se per caso qualcuno non si dimostrava contento, aveva subito a che fare con mio padre stesso, che non mancava di sostenere con la spada il valore di ciascuna delle sue decisioni.
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Mio padre ritenne opportuno di invitare alle sue nozze tutti coloro coi quali si era battuto, s’intende quelli che non aveva ucciso.
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…..Quando furono soli, mio padre disse all’altro viaggiatore:
-Signor cavaliere, la vostra vettura ha sorpassato la mia carrozza per arrivare alla posta prima di me. Tale condotta, che, in sé e per sé, non è un insulto, ha tuttavia qualcosa di sgarbato di cui credo dovervi chiedere ragione-.
Il colonnello, molto sorpreso, gettò tutta la colpa sui postiglioni, e assicurò che da parte sua non ne aveva alcuna.
-Signor cavaliere, – riprese mio padre – neppure io pretendo di considerare questa una faccenda seria e mi accontenterò del “primo sangue”-.
E così dicendo, trasse la spada.
– Aspettate ancora un momento! – disse il francese.
– A me sembra che non siano affatto i miei postiglioni che hanno sorpassato i vostri, ma che siano i vostri che, andando più lentamente, sono rimasti indietro -.
Mio padre, dopo aver un po’ riflettuto, disse al colonnello:
– Signor cavaliere, credo che abbiate ragione e, se mi aveste fatto questa osservazione prima che io avessi tratto la spada, probabilmente non ci saremmo battuti, ma capirete bene che al punto in cui stanno le cose ci vuole un po’ di sangue -.
Il colonnello, che senza dubbio trovò quest’ultima ragione abbastanza buona, trasse anche lui la spada. Il duello non fu lungo. Mio padre, sentendosi ferito, abbassò subito la punta della spada e fece molte scuse al colonnello per il fastidio che gli aveva dato; quest’ultimo rispose offrendo i suoi servigi, diede il suo indirizzo di Parigi, montò in vettura e si rimise in viaggio.
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Terza giornata
Storia di Trivulzio da Ravenna
Dopo questi duri rimproveri che per poco non mi fecero morire di vergogna, vi fu un grande silenzio. Garcias lo ruppe per il primo e, rivolgendosi a mio padre, gli disse:
– Monsignore, se osassi dire il mio parere a Vostra Eccellenza, questo sarebbe di provare al Signore vostro figlio che non esistono fantasmi, né spettri, né morti che cantano litanie, e che non possono esisterne. In questo modo non ne avrebbe certo paura ».
-Signor Hierro,- rispose mio padre piuttosto acido – voi dimenticate che ieri ho avuto l’onore di mostrarvi una storia di fantasmi scritta di propria mano dal mio bisavolo -..
– Monsignore, – riprese Garcias – io non smentisco il bisavolo di Vostra Eccellenza -.
– Che cosa intendete – disse mio padre – per “non smentisco “? Non sapete che questa espressione suppone la possibilità di una smentita da voi data al mio bisavolo? -.
– Monsignore, – disse ancora Garcias – so bene di valere troppo poco perché Monsignore il vostro bisavolo potesse desiderare di trarre da me una qualsiasi soddisfazione – .
Allora mio padre, assumendo un’aria ancora più terribile, disse:
– Hierro, che il cielo vi preservi dal fare delle scuse, perché queste supporrebbero un’offesa -.
– Insomma – disse Garcias – non mi rimane che sottomettermi al castigo che a Vostra Eccellenza piacerà di infliggermi in nome del suo bisavolo; soltanto, per l’onore della mia professione, vorrei che questa pena mi fosse assegnata dal nostro cappellano, perché la possa considerare come una penitenza ecclesiastica -.
– Non è una cattiva idea; – disse allora mio padre con un tono più tranquillo – mi ricordo di aver scritto in altri tempi un piccolo trattato sulle soddisfazioni ammissibili nei casi in cui non può aver luogo il duello. Lasciate che vi rifletta -.
Egli parve dapprima riflettere su questo argomento, ma, di riflessione in riflessione, fini per addormentarsi nella poltrona. Mia madre dormiva già, il teologo pure, e Garcias non tardò a seguire il loro esempio. Allora credetti bene di ritirarmi, e cosi trascorse,il primo giorno del mio ritorno alla casa paterna.
PUSKIN
(Mosca, 6 giugno 1799 – San Pietroburgo, 10 febbraio 1837)
Puskin
Testo da Eugenij Onegin – poema in versi (1833)
Capitolo IV versi 26-29
E Onegin?Ah giusto, fratelli!/ Vi prego, un po’ di pazienza:/ i suoi quotidiani fardelli descriverò con diligenza./ Da anacoreta egli viveva:/ la sveglia alle sette metteva/ d’estate e, abbigliato in costume/da bagno, era subito al fiume/…/ poi scorreva, il caffè sorseggiando,/ e si vestiva…Gite, letture, sonni interi,/ boschi, rivi mormoranti,/ di una bella dagli occhi neri/ i baci giovani e fragranti,/ un cavallo docile e ardente,/ un pranzo dal menù esigente,/ una bottiglia di chiaretto/ e starsene in pace soletto:/ di Onegin la vita beata/ è questa e lui si lascia andare/senza più i giorni contare/ della sua estate spensierata,/ gli amici obliando e la città, le tediose formalità..
Capitolo VII verso 36
Ma ecco: ormai davanti a loro/è Mosca: di pietre bianca;/ un fulgore di croci d’oro/sulle antiche cupole avvampa./ Che gioia, fratelli, allorché/ si spalancava davanti a me/ la sua chiostra di campanili,/di chiese, magioni e giardini!/ Quante volte in un addio mesto,/ dal mio destino sbalestrato/o Mosca a te io ho pensato!/ Mosca…quante cose in questo/suono un cuore russo sente!/ Quante cose rievoca sempre!
R.M. RILKE
(Praga 1875 – Valmont sur Territer – Vaud 1926)
Testo da “I Quaderni di Marte Laurids Brigge”
“…Oh, ma con i versi si fa ben poco, quando li si scrive troppo presto. Bisognerebbe aspettare e raccogliere senso e dolcezza per tutta una vita e meglio una lunga vita, e poi, proprio alla fine, forse si riuscirebbe poi a scrivere dieci righe che fossero buone. Poiché i versi non sono, come crede la gente, sentimenti (che si hanno già presto), sono esperienze. Per un solo verso si devono vedere molte città, uomini e cose, si devono conoscere gli animali, si deve sentire come gli uccelli volano, e sapere i gesti con cui i fiori si schiudono al mattino. Si deve poter ripensare a sentieri in regioni sconosciute, a incontri inaspettati e a separazioni che si videro venire da lungi, a giorni d’infanzia che sono ancora inesplicati, ai genitori che eravamo costretti a mortificare quando ci porgevano una gioia e non la capivamo (era una gioia per altri), a malattie dell’infanzia che cominciavano in modo così strano con tante trasformazioni così profonde e gravi, a giorni in camere silenziose, , raccolte, e a mattine sul mare, al mare, a mari, a notti di viaggio che passavamo alte rumoreggianti e volavano con tutte le stelle, e non basta ancora poter pensare a tutto ciò. Si devono avere ricordi di molte notti d’amore, nessuna uguale all’altra, di grida di partorienti, e di lievi, bianche puerpere addormentate che si richiudono. Ma anche presso i moribondi si deve essere stati, si deve essere rimasti presso i morti nella camera con la finestra aperta e i rumori che giungono a folate. E anche avere ricordi non basta. Si deve poterli dimenticare, quando sono molti, e si deve avere la grande pazienza di aspettare che ritornino. Poiché i ricordi di per se stessi ancora non sono. Solo quando divengono in noi sangue, sguardo e gesto, senza nome e non più scindibili da noi, solo allora può darsi che in una rarissima ora sorga nel loro centro e ne esca la prima parola di un verso.”…
Johann Christoph Friedrich von SCHILLER
(Marbach am Neckar, 10 novembre 1759 – Weimar, 9 maggio 1805)
Schiller
testo da I Masnadieri (1781), atto I, fine scena prima
Moor, informato dal figlio Franz, è deluso e inorridito dal comportamento dell’altro figlio Karl e decide di abbandonarlo al suo destino ma, convinto da Franz, lascia a quest’ultimo il compito di scrivergli…
MOOR
Scrivigli, figlio mio. Ahimè, questo mi avrebbe spezzato il cuore! Scrivigli…
FRANZ (rapidamente)
D’accordo, allora?
MOOR
Descrivigli le mie mille lacrime di sangue, le mie mille notti d’insonnia. Ma non gettare mio figlio nel baratro della disperazione!
FRANZ
Non volete andare a letto, padre? Questi avvenimenti vi hanno messo a dura prova.
MOOR
Scrivigli che il cuore di suo padre… Te lo ripeto, non ridurre mio figlio alla disperazione. (Esce tristemente)
FRANZ (lo guarda allontanarsi ridendo)
Consolati, vecchio, non lo stringerai più al seno, la via gli è sbarrata, come il cielo è separato dall’inferno. Ti è stato strappato dalle braccia, prima ancora che tu potessi dare il tuo assenso. Sarei stato un deplorevole idiota, se non avessi avuto la capacità di strappare un figlio dal cuore paterno, anche se fosse stato trattenuto da uncini di ferro! Attorno a te ho tracciato un cerchio magico di maledizioni che non potrà mai varcare. Buona fortuna, Franz! Il figlio diletto è spacciato, il fitto bosco si dirada. Devo mettere a posto queste carte, qualcuno potrebbe riconoscere facilmente la mia calligrafia. (Raccoglie i frammenti delle lettere) Il dolore si porterà via in fretta il vecchio… Ma devo strappare l’amore di Karl dal cuore di lei, a costo di sottrarle metà della sua vita. Ho il diritto di essere sdegnato contro la Natura e, sul mio onore, lo farò valere. Perché non sono uscito per primo dal ventre di mia madre? Perché non sono figlio unico? Perché mi ha imposto il fardello di questa ripugnante bruttezza? Perché solo io? Come se, alla mia nascita, avesse a disposizione solo qualche misero avanzo? Perché mi ha regalato questo naso da lappone, questa bocca da negro, questi occhi da ottentotto? Io credo che la Natura abbia scelto ciò che vi era di più mostruoso tra tutte le razze umane e mi abbia foggiato di questa pasta. Dannazione! Chi le ha concesso il privilegio di accordare tutto all’altro, e di negare tutto a me? Come poteva essere sensibile agli omaggi di uno e alle offese dell’altro, prima della loro nascita? Perché una simile parzialità nel suo operato? No, no! Sono ingiusto nei suoi confronti. Ci ha dotati d’immaginazione e d’inventiva se ci ha deposti, nudi e miserabili, sulle rive di quel grande oceano che è il mondo. Chi ce la fa nuoti, e chi è pesante vada a fondo! A me non ha regalato un bel nulla e se voglio fare qualcosa di me stesso, devo provvedere da solo. Ognuno può vantare gli stessi diritti nei confronti delle cose più alte e delle cose più piccole: le pretese, gli istinti, le forze si annientano quando contrastano l’una con l’altra. Il diritto è la prerogativa del vincitore, e le leggi non sono altro che i limiti della nostra forza. È vero, sono stati conclusi dei patti in comune, per dare impulso al mondo. Che bella definizione! È proprio una moneta soddisfacente con cui si possono condurre traffici lucrosi, purché si sappia spenderla a proposito. La coscienza… oh sì, certo!, ecco un bellissimo spaventapasseri per cacciar via i passeri dai ciliegi, o meglio una cambiale redatta nei termini giusti per permettere a chi ha dichiarato fallimento di tirarsi d’impaccio in caso di necessità. Ah, non c’è dubbio, sono tutte lodevoli istituzioni per assoggettare gli imbecilli e il popolo sotto lo stivale, fatte apposta perché i furbi possano profittarne liberamente. Ah, sono proprio una buffonata, non c’è che dire! Mi ricordano le siepi con cui i miei contadini recintano astutamente i loro campi perché non ci possa entrare una lepre, nemmeno una sola, per carità! Ma il padrone dà di sprone al suo cavallo e passa tranquillamente al galoppo sul raccolto. Povera lepre! Che ruolo infimo e deplorevole quello di chi, al mondo, è costretto ad essere lepre. Ma il padrone ha bisogno di lepri! Quindi, passiamo oltre! Chi non ha paura di nulla non è meno potente di chi è temuto da tutti. Oggi è di moda portare i pantaloni con delle fibbie che si possono stringere o allargare a volontà. Secondo i dettami della nuova moda, ci faremo tagliare una coscienza su misura, con una fibbia che potremo allentare ogni volta che se ne presenterà la necessità. Cosa possiamo farci? Vedetevela col sarto! Ho sentito un sacco di storie a proposito di una cosiddetta voce del sangue, storie tali da far scoppiare la testa a qualsiasi brava persona… È tuo fratello! Traduciamo: è uscito dallo stesso forno da cui sei uscito anche tu, quindi per te deve essere sacro. Notate ancora, vi prego, che assurda catena di cause ed effetti, che modo grottesco di dedurre dalla parentela dei corpi l’armonia degli spiriti, dalla comune patria d’origine l’affinità dei sentimenti, dagli stessi cibi alle stesse disposizioni! Ma proseguiamo: è tuo padre! Ti ha dato la vita, sei la sua carne e il suo sangue, e per te dev’essere sacro. Ecco un modo di pensare rigidamente conseguente! Tuttavia io chiederei: perché mi ha generato? Non certo per amor mio: io non esistevo ancora. Mi ha conosciuto prima di generarmi o pensava a me, generandomi? Mentre mi generava, desiderava proprio me? Sapeva ciò che sarei diventato? Non glielo auguro, perché in caso contrario dovrei punirlo per avermi dato la vita. Posso essergli grato se sono nato maschio? Tanto poco quanto potrei accusarlo se fossi nato femmina. Posso correttamente valutare un amore che non si fonda sull’apprezzamento della mia personalità? E questo apprezzamento poteva esistere dal momento che la mia personalità doveva nascere solo per mezzo di quell’amore di cui era il presupposto? E allora dov’è il sacro? Forse nell’atto che mi ha messo al mondo? Come se questo atto fosse diverso da un processo bestiale volto a soddisfare una concupiscenza bestiale? O forse sta nell’esito ultimo di questo atto, che in fondo è solo una necessità irrevocabile, di cui si farebbe volentieri a meno se non ci andassero di mezzo la carne e il sangue? Devo forse trattarlo gentilmente perché mi ama? Questa non è che vanità da parte sua, ovvero il peccato prediletto da ogni artista che amoreggia con la sua opera, per quanto ripugnante. Guardatela bene: eccola qua la stregoneria che voi velate di una nebbia sacra per sfruttare i nostri timori! O dovrò proprio farmi menare per il naso, come un ragazzino? Su, coraggio, mettiamoci al lavoro! Svellerò alla radice tutto ciò che per me costituisce un ostacolo e mi inibisce di essere il padrone. Il padrone! Ecco cosa devo diventare, se voglio ottenere con la forza ciò che non può offrirmi quell’amabilità che non possiedo. (Esce)
Arthur SCHOPENAUER
(Danzica, 22 febbraio 1788 – Francoforte sul Meno, 21 settembre 1860)
“Per venire a capo di queste cose si dovrebbe propriamente rispondere innanzitutto alle seguenti domande: è possibile una totale disparità tra il carattere e il destino di un uomo. – oppure in generale ogni destino si addice a ogni carattere? – o vi è infine una necessità segreta e inafferrabile, paragonabile al poeta di un dramma che adatta ogni volta l’uno all’altro?”
“Il magnetismo animale si presenta allora chiaramente come la metafisica pratica, come quella che già Bacone da Verulamio nella sua classificazione delle scienze (Instauratio magna, L.III) indicava come magia: è la metafisica empirica o sperimentale”
“Se si legge la storia della magia di D. Tiederman, dal titolo Disputatio de quaestione, quae fuerit artium magicarum origo, Marburgo, 1787, uno degli scritti premiati dalla Società di Gottinga, ci si meraviglierà dell’assiduità con cui, nonostante tanti fallimenti, l’umanità abbia ovunque e in ogni tempo inseguito l’idea di magia, e se ne trarrà la conclusione che ciò debba avere una ragione profonda, almeno nella natura dell’uomo se non in generale in quella delle cose”
“Gli antichi non si stancano di mettere in risalto, in versi e in prosa, l’onnipotenza del destino, con il che alludono, di contro, all’impotenza dell’uomo. Ovunque si vede che questa è una convinzione da cui essi sono pervasi, in quanto presagiscono una connessione delle cose più segreta e profonda di quella chiaramente empirica”
“Molti anzi tireranno da ciò la conclusione che una forza segreta e inspiegabile guidi tutte le svolte e le tortuosità della nostra vita, di fatto molto spesso contro la nostra intenzione del momento […] Una tale forza, attraversando con un filo inspiegabile tutte le cose, dovrebbe collegare anche quelle lasciate senza alcun nesso dalla catena causale, così che queste, all’occorrenza, si incontrino. Essa dominerebbe dunque gli avvenimenti della vita reale come il poeta domina gli eventi del suo dramma”
“Che il magnetismo animale e i suoi fenomeni siano identici con una parte dell’antica magia, di quell’arte segreta e famigerata, della cui realtà si sono mostrati convinti non soltanto i secoli cristiani, che così duramente l’hanno perseguita, ma così anche tutti i popoli della terra, compresi quelli selvaggi, attraverso tutte le età”
“Molte sonnambule hanno infatti detto in singoli casi ai malati condotti loro innanzi per quale motivo, del tutto casuale, essi si erano procurati, molto tempo prima, la loro malattia, richiamando così alla loro memoria l’accaduto, quasi del tutto dimenticato”
“Faccio osservare, di passaggio, che il cristianesimo, il quale ha notoriamente trasformato di buon grado in diavoli gli dei e i demoni dei pagani, sembra abbia fatto di questo Genius degli antichi lo spiritus familiaris dei dotti e dei maghi. L’idea cristiana della provvidenza è troppo nota perchè si renda necessario soffermarvisi […] In verità tuttavia questa forza nascosta, e tale da indirizzare perfino gli influssi esterni, può essere radicata infine soltanto nella nostra propria e segreta intimità, poichè infatti l’alfa e l’omega di ogni esistenza risiede in fin dei conti in noi stessi”
“Poichè inoltre nel magnetismo animale si manifesta la volontà come cosa in sé, vediamo subito eluso il principium individuationis (spazio e tempo) appartenente al semplice fenomeno: vengono infrante le barriere che separavano gli individui, tra magnetizzatore e sonnambula gli spazi non stabiliscono alcuna separazione, fa il suo ingresso una comunità di pensieri e di moti della volontà”
“Tutti gli avvenimenti della vita di un uomo sarebbero dunque in due tipi di connessione, radicalmente diversi tra loro: in primo luogo nel nesso obiettivo, causale, del corso della natura; in secondo luogo in un nesso soggettivo che sussiste soltanto in relazione all’individuo che ne fa esperienza, ed è soggettivo quanto i suoi stessi sogni, in cui però la loro successione e il contenuto, per quanto necessariamente, sono determinati al modo della successione delle scene di un dramma: secondo il piano del poeta […] ognuno è l’eroe del proprio dramma e del pari anche la comparsa in quello altrui […] E’ un grande sogno che viene sognato da ogni singolo essere, ma in modo tale che tutti i suoi personaggi lo sognino in sua compagnia”
WISLAWA SZYMBORSKA
(Kórnik, 2 luglio 1923 – Cracovia, 1º febbraio 2012)
Nobel per la letteratura nel 1996
“Busso alla porta della pietra
– Sono io, fammi entrare.
Voglio venirti dentro,
dare un’occhiata,
respirarti come l’aria.
– Vattene – dice la pietra.
Sono ermeticamente chiusa.
Anche fatte a pezzi
saremo chiuse ermeticamente.
Anche ridotte in polvere
non faremo entrare nessuno.
Busso alla porta della pietra.
– Sono io, fammi entrare.
Vengo per pura curiosità.
La vita è la sua unica occasione.
Vorrei girare per il tuo palazzo,
e visitare poi anche la foglia e la goccia d’acqua.
Ho poco tempo per farlo.
La mia mortalità dovrebbe commuoverti.
– Sono di pietra – dice la pietra
– E devo restare seria per forza.
Vattene via.
Non ho i muscoli per ridere.
Busso alla porta della pietra.
– Sono io, fammi entrare.
Dicono che in te ci sono grandi sale vuote,
mai viste, belle invano,
sorde, senza l’eco di alcun passo.
Ammetti che tu stessa ne sai poco.
– Sale grandi e vuote – dice la pietra
ma in esse non c’è spazio.
Belle, può darsi, ma al di là del gusto
dei tuoi poveri sensi.
Puoi conoscermi, però mai fino in fondo.
Con tutta la superficie mi rivolgo a te,
ma tutto il mio interno è girato altrove.
Busso alla porta della pietra
– Sono io, fammi entrare.
Non cerco in te un rifugio per l’eternità.
Non sono infelice.
Non sono senza casa.
Il mio mondo è degno di ritorno.
Entrerò e uscirò a mani vuote.
E come prova d’esserci davvero stata
porterò solo parole,
a cui nessuno presterà fede.
– Non entrerai – dice la pietra.-
Ti manca il senso del partecipare.
Nessun senso ti sostituirà quello del partecipare.
Anche una vista affilata fino all’onniveggenza
a nulla ti servirà senza il senso del partecipare.
Non entrerai, non hai che un senso di quel senso,
appena un germe, solo una parvenza.
Busso alla porta della pietra.
– Sono io, fammi entrare.
Non posso attendere duemila secoli
per entrare sotto il tuo tetto.
– Se non mi credi – dice la pietra-
rivolgiti alla foglia, dirà la stessa cosa.
Chiedi a una goccia d’acqua, dirà come la foglia.
Chiedi infine a un capello della tua testa.
Scoppio dal ridere, d’una immensa risata
che non so far scoppiare.
Busso alla porta della pietra.
– Sono io, fammi entrare.
– Non ho porta – dice la pietra.”
Stanisław Ignacy WITKIEWICZ (Witkacy)
(Varsavia 1885 – Jeziory 1939)
Testo da “Loro”, 1920
…Voglio essere solo. Non desidero diventare membro di nessuna società, di nessuna banda di malfattori, non voglio neanche essere un artista, come ho voluto per tutta la mia miserabile vita. Voglio restare solo. Ecco tutto.