Stanislaw WITKIEWICZ

 

Stanislaw WITKIEWICZ

Stanislaw WITKIEWICZ

Stanislaw WITKIEWICZ

(Varsavia 1885 – Jeziory, Volinia 1939)

Stanislaw Witkiewicz, (Witkacy),

Drammaturgo, Poeta, Narratore, Pittore, Fotografo, Teorico d’arte, Filosofo. Uno dei più rappresentativi membri dell’avanguardia poetica ed artistica in Polonia insieme a Witold Gombrowicz ed a Bruno Schultz

IN QUESTA PAGINA: Biografia: Nota 1, Nota 2  – Due contrastanti giudizi  – Insaziabilità (Nienasycenie)


Stanislaw Witkiewicz: note biografiche

Stanisław Witkiewicz, "Fantazja - Bajka", 1922

Stanisław Witkiewicz, “Fantazja – Bajka”, 1922, fot. Muzeum Narodowe w Warszawie

 

La personalità di Stanislaw Ignacy Witkiewicz (1885-1939), anche chiamato familiarmente Witkacy, travalica l’ambito disciplinare della filosofia per abbracciare tutta una serie di attività creative che fanno di lui una personalità unica nella cultura europea ed in quella polacca tra le due guerre. Drammaturgo, poeta, narratore, pittore, fotografo, teorico d’arte (fu uno dei più rappresentativi membri dell’avanguardia poetica ed artistica in Polonia insieme a Witold Gombrowicz e a Bruno Schulz sin dal 1919 e sostenitore del formalismo), infine acuto ed eccentrico filosofo: in tale molteplicità di interessi si riassume una figura inquieta e difficile da collocare con esattezza negli scomparti disciplinari che si è soliti utilizzare.

Tra tutte le sue attività, certamente la filosofia fu quella che egli considerò centrale. Ma la riflessione filosofica con la quale Witkiewicz ha accompagnato incessantemente la sua attività era per lo più sconosciuta ai suoi contemporanei, se non attraverso la mediazione della sua attività artistica.

Witkiewicz fu un critico radicale della società borghese

e delle forme di esistenza sociale generate dal sistema capitalistico, che temeva avrebbero portato ad una completa disumanizzazione della vita sociale e ad un crescente totalitarizzazione, col conseguente annichilimento della personalità individuale. Paradossale ed ironico demistificatore della morale borghese; fustigatore della incombente società di massa che vedeva avanzare in maniera irreversibile ad Occidente come ad Oriente, sotto le ipocrisie del sistema democratico, come dietro le bandiere delle masse proletarie;

spettatore tragicamente consapevole

del progressivo deperimento dei valori autentici, legati alla personalità individuale e creativa dell’uomo, in favore dei beni che sempre più si affermano nella vita sociale, legati alla felicità, all’utile, alla soddisfazione materiale, effettuò con la sua filosofia della storia una diagnosi catastrofista della realtà contemporanea: il benessere cui la società tende e a cui anche ambiscono le “classi lavoratrici” porta alla dimenticanza del mistero dell’esistenza (concetto da lui posto al centro della sua “monadologia”), all’estinzione del sentimento metafisico che da esso scaturisce e con ciò anche alla fine della religione e dell’arte, che su di esso si fondano.

Ma segna anche la fine della filosofia, il suo suicidio: questa la prognosi negativa che scaturisce dalla diagnosi della crescente meccanizzazione della vita, della crisi dell’individuo nella società contemporanea, sempre più minacciato dall’avanzata della uniformità e dell’omologazione democratica, la cui massima incarnazione è per lui il socialismo; e piuttosto che vivere in una società da esso plasmata, Witkiewicz da autentico nichilista preferì il suicidio. Contro questa fine innaturale della filosofia, contro questo suo deperimento, Witkiewicz protestava in nome dell’individuo e ai nuovi miti democratici ed egualitari lanciava la sua parola d’ordine: “monadi di tutto il mondo, unitevi!”

La filosofia consegnata nei suoi saggi specialistici

Witkiewicz cercò di fondare teoreticamente e su basi ontologiche la concezione dell’individuo da lui presupposta nei suoi drammi e romanzi e operò una critica irriducibile del modello scientistico della cultura da lui individuato nelle opere di Wittgenstein, Russell e Carnap (sicché usava il termine “carnapizzazione” come sinonimo di instupidimento), che in Polonia, proprio negli anni trenta, praticamente dominava la scena filosofica e che Witkiewicz, senza fare alcuna concessione al misticismo o all’intuizionismo alla Bergson, criticava in particolare nelle opere di Kotarbinski  e Chwistek .

La sua opera principale:

Stanislaw Witkiewicz: Pojecia i twierdzenia implikowane przez pojecie istnienia

(Concetti e tesi implicate dal concetto di esistenza, Warszawa , 1935)

ha al suo centro il carattere monadico dell’esistenza del singolo, che in sé abbraccia e ricomprende l’intera molteplicità. Ogni Io è, per

"Kompozycja", 1922,

Stanisław Witkiewicz (Witkacy), “Kompozycja”, 1922, olej na płótnie, fot. Muzeum Narodowe w Krakowie

Witkiewicz, una identità che contiene in sé la molteplicità: “monadismo biologico”, definì la propria posizione filosofica. Con la sua ontologia avrebbe voluto costruire un sistema in grado di portare ad unità tutte le visioni particolari e le verità parziali delle altre posizioni filosofiche, lo psicologismo e il fisicalismo in particolare; ciò grazie al fatto che come punto di partenza imprescindibile e irriducibile viene assunta la totalità dell’esistenza: “io parto dal finora indifferenziato concetto di Essere in generale”.

Da questo concetto di Essere deriva il concetto di pluralità: è questa quella che egli chiama la “implicazione metafisica originaria”; e questa pluralità è fatta di esseri individuali. In tal modo, la personalità individuale è per lui un concetto prioritario che non può ricondursi od essere ridotto a suoi pallidi ed esangui sostituti: la “coscienza pura” di Husserl, i “dati mediati della personalità” di Cornelius, oppure il “complesso di elementi” di Mach. La tesi fondamentale della sua ontologia è pertanto che il Mondo è costituito da una molteplicità di Esistenze Particolari. L’esistenza particolare, cioè ogni individuo cosciente o anche ogni “Io”, è nel suo sistema l’essere prioritario, ultimo e non riconducibile a nient’altro. Esso è un essere duplice, nel quale coesistono e si compenetrano due parti indipendenti: il corpo e la coscienza.

L’inscindibile unità nella pluralità costituita dalla monade,

che è se stessa e insieme rinvia alla molteplicità del mondo, è considerata da Witkiewicz come il dato originario che non può essere ulteriormente chiarificato, allo stesso modo di come ogni costruzione logica deve ammettere un punto di partenza da assumere come indefinito: è questo il Mistero dell’Essere che “è definibile come l’impossibilità di definire tutti i concetti di qualsivoglia sistema concettuale e dell’inevitabilità di impantanarsi in concetti primitivi”. Nel Mistero dell’Essere viene ad esprimersi, in sostanza, l’invalicabile abisso ontologico che separa l’Io dal mondo, la finitezza di ogni monade e infinità dell’universo. da

http://eber.kul.lublin.pl/~polhome/PolPhil/Witk/Witk.html#anchor806521
Ringraziamo il Prof.  Francesco Coniglione per il permesso alla pubblicazione



Stanislaw Witkiewicz: Nota Biografica 2

Self-Portrait, 1927

Self-Portrait, 1927, pastel on paper, 65.0 x 49.0 cm, Museum of Central Pomerania, Slupsk, Poland

   

Anche la vita di Witkiewicz è segnata dall’originalità e dall’anticonformismo. Nato a Varsavia , figlio di un eminente critico, scrittore ed artista (Stanislaw anch’esso), già nelle prima infanzia mostrò segni di precoce genio, leggendo opere scientifiche e filosofiche in diverse lingue e scrivendo all’età di sette anni delle brevi commedie ad imitazione di Shakespeare. Trascorse la giovinezza a Zakopane dove ricevette un’educazione da autodidatta sotto la guida del padre e, tra gli altri, di M. Limanowski e W. Folkierski: il padre, infatti, era convinto che il sistema scolastico porta all’annichilimento della personalità del bambino. A 17 anni compose la sua prima dissertazione filosofica nella quale già erano adombrate le sue successive teorie e quindi, nel 1903 si diplomò da esterno a Leopoli per iscriversi nel 1904 all’Accademia di Belle Arti di Cracovia , viaggiando spesso in seguito per perfezionarsi artisticamente in Italia, Germania e Francia.

La sua vita conobbe anche l’avventura: nel 1914 accompagnò come pittore, fotografo e segretario il celebre antropologo Malinowski nella sua spedizione in Australia. Durante la prima guerra mondiale fu in Russia come ufficiale zarista (essendo nato a Varsavia, allora sotto il dominio russo, era suddito di questo paese), e dopo la rivoluzione d’ottobre fu trasferito a S. Petersburg  dove iniziò gli studi filosofici (mai conclusi) e svolse la funzione di “commissario politico” del proprio reparto, pur non essendo comunista. Tale periodo trascorso in Russia ha avuto un’importanza fondamentale nello sviluppo del suo pensiero, in quanto proprio in questo periodo presero forma le sue idee filosofiche, segnate dall’impressione che su di lui avevano avuto le vicende belliche, ed iniziò a comporre il suo principale scritto di estetica (Nuove forme nella pittura, 1919) nel quale elaborò la concezione della “pura forma” nell’arte

Ora in Witkiewicz, Nowe formy w malarstwie i inne pisma estetyczne, cit..

Ritornato in patria, andò a risiedere a Zakopane e strinse amicizia con Chwistek , insieme al quale fu il principale teorico del gruppo di artisti d’avanguardia esponenti del “formismo” (1918-1922). Si diede anche all’organizzazione di iniziative teatrali (tra queste il teatro formista d’avanguardia di Zakopane dal 1925 al 1927) ed al tempo stesso dipingeva e studiava filosofia, lavorando incessantemente al suo sistema filosofico, che intanto cercava di popolarizzare e divulgare con una grande quantità di articoli su riviste e quotidiani.

La sua opera filosofica principale

fu pubblicata solo nel 1935, e da allora egli girò per la Polonia tenendo lezioni di carattere letterario, artistico e filosofico. Intanto la sua critica verso la civiltà contemporanea si radicalizzava sempre più: nel nazismo ad Occidente e nel bolscevismo ad Oriente vedeva una minaccia mortale alla cultura e alla civiltà d’Europa, sicché quando le truppe sovietiche, in seguito al patto Molotov-Ribbentrop, invasero il territorio polacco, egli preferì darsi la morte in una aristocratica e individualistica protesta contro il regime di massa da lui paventato.

da http://eber.kul.lublin.pl/~polhome/PolPhil/Witk/Witk.html#anchor806521
Ringraziamo il Prof.  Francesco Coniglione per il permesso alla pubblicazione



Stanislaw I. Witkiewicz: Due contrastanti giudizi di Ingarden e Kotarbinski

Roman Ingarden

Perché Witkiewicz era così degno di considerazione nella nostra atmosfera filosofica? Si distingueva per l’ampiezza del suo sviluppo filosofico? Era superiore agli altri per competenza nel ragionamento o per precisione nel formulare le proprie conclusioni? Mi sembra che per questi aspetti egli non era all’altezza dei suoi contemporanei, specialmente dei giovani che erano stati professionalmente educati come filosofi, a Leopoli o a Varsavia. Era anche meno chiaro e preciso ed era privo di una terminologia eadeguatamente elaborata e sufficientemente informativa.

La terminologia che usava

era assai spesso piuttosto infelice, artificiale e riusciva a comunicare poco. In breve, era un filosofo autodidatta, mai educato in un buon college, e mancava di un metodo coerentemente applicato e adeguatamente meditato. E tuttavia e di ciò ne sono fortemente convinto egli era più filosofo di molti di coloro che lo guardavano dall’alto in basso, trattandolo al massimo come un letterato filosofeggiante e non come uno studioso.

Egli era filosofo

innanzi tutto perché si poneva problemi coi quali viveva, ai quali era personalmente interessato e che lo scuotevano profondamente. […] Non si gingillava con questioni minori, isolate, né con insignificanti gioelli polacchi, ma andava in cerca di questioni fondamentali, che avrebbero potuto illuminare l’intero campo problematico […] Era anche filosofo nel senso che le questioni nelle quale era impegnato erano filosofiche nel senso proprio di questa parola; esse facevano riferimento alla struttura dell’essere, alle sue qualificazioni fondamentali e al suo significato ultimo.

I vari trucchi pseudofilosofici,

come la tendenza a cavarsi dai guai in questioni centrali coll’apparire estremamente precisi e scientifici in campi piuttosto banali con nessuna possibile soluzione, era di nessun valore per Witkiewicz. A volte, tuttavia, veniva infetto dalla moda allora prevalente in Polonia, per cui ad esempio sciupava il periodare della sua opera principale per la passione di usare simboli, che si supponeva fosse un metodo per “rendere esatta” e matematizzare la filosofia. Egli capiva però che non era questo il metodo che avrebbe potutro far progredire anche di un solo passo nessuno dei problemi filosofici essenziali. […] Per Witkiewicz i problemi e il desiderio di risolverli era più forte dei dubbi sulla possibilità di risolverli e di verificare le conclusioni ottenute.” (R. Ingarden, “Reminiscences of Stanislaw Ignacy Witkiewicz”, Dialectic and Humanism, 2, 1985, p. 57).

Tadeusz Kotarbinski

“Un recensore obiettivo è costretto ad affermare che il libro [Pojecia i twierdzenia implikowane przez pojecie istnienia] è scritto in modo insopportabile […] L’opera, del tutto esente da una programmatica incomprensibilità, anzi al contrario tradendo il continuo sforzo di esprimere il pensiero nel modo più accurato, è tuttavia di un’intellegibilità a prova di concorso [konkursowo niezrozumiale]. Non si spiega questo innanzi tutto con la mancanza di un’adeguata chiarificazione del pensiero espresso?” (T. Kotarbinski, “Stanislaw Ignacy Witkiewicz: Pojecia i twierdzenia implikowane przez pojecie istnienia”, in Przeglad Filozoficzny, 1936, z. 2; ora in Id., Wybór pism, PWN, Wareszawa 1958, p. 868).

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Stanislaw Witkiewicz: Insaziabilità (Nienasycenie)

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Ringraziamo il Dott. Piero Scaruffi per il permesso alla pubblicazione

Stanislaw WitkiewiczI. Ambientato alla fine del 1900. Genezyp Kapen cresce ossessionato dall’autorità paterna (un nobile birraio) e dal mistero della donna in un mondo minacciato da orde barbare provenienti da est (i comunisti cinesi). Witkievicz mescola una Storia semi-immaginaria (che si limita ad amplificare il terrore di un’invasione negli schemi degli avvenimenti reali, quindi il terrore d’una distruzione della civiltà) e le morbose pulsioni del bambino e dell’adolescente, portato a masturbarsi con il cugino Taldzio e a rendere la libertà ai cani, questo attraverso i suoi sogni.

Accumulo disordinato e fortemente intellettualistico,

con digressioni sociologiche e psicanalitiche, incalzante zibaldone di periodi che s’accavallano e compenetrano, allucinante rapporto sulla condizione dell’uomo Kapen, nobile votato ad ideali democratici, all’inizio della sua educazione sentimentale. Prosa visionaria ed aggressiva confusamente tecnico-scientifica, verbosa ed inconcludente, inframmezzata da “notizie” storiche o biografiche, liberi commentari in margine. Decadenza ed ossessione.

Genezyp s’innamora della principessa Irina Ticonderoga, corteggiata dal pianista Stuifan Tengier, un turpe storpio megalomane che disprezza i comuni mortali, esalta il proprio genio e proclama la fine apocalittica dell’arte, sposato ad una montanara e padre di due figli. La principessa è un’erotomane di mezza età (la porno-visione che ha di Tengier a pag. 29 “nel superbordello d’una metropoli cosmica …”) che s’incapriccia del giovane, il quale, con il padre in punto di morte, non vede l’ora di cominciare a vivere. La notte del primo appuntamento va a trovare Tengier, che, viscido, deforme e puzzolente, lo bacia lungamente sulla bocca, gli esegue una martellante bestiale sonata e gli parla della propria filosofia; poi, attraverso un bosco infestato dai lupi, l’accompagna al castello del principe Basilio. Il principe (un russo in esilio), il logico Benz e Tenzier discettano di idee filosofiche.

Usciti nel bosco dal castello,

Tengier tenta di sedurre il giovane, il quale (pur disgustato) lo lascia fare, per un misto di pietà, curiosità e vergogna della propria verginità. Per Tengier è una vendetta: sa che la principessa desidera il giovane vergine e glielo rovina. La notte dopo Genezyp si reca dalla principessa per consumare il suo primo amplesso: vi trova suo figlio Maciej di Scampi, che discetta di politica con il padre; per i due uomini Genezyp è soltanto il nuovo amante della principessa. Genezyp è conquistato dal fascino della “vecchiarda”, che lo domina e gli dà le prime sensazioni di virilità. Tornato a casa, apprende che il padre è spirato.

Il dolore della madre e della sorella

mutano in rabbia quando apprendono che il defunto ha lasciato tutto agli operai della sua birreria; in realtà l’ha fatto per beneficare il figlio: prevedendo la fine della loro civiltà e l’avvento della barbarie bolscevica, ha voluto porre Genezyp nella condizione di non dover essere processato per le sue ricchezze; non solo: il vecchio Kapen aveva scritto all’amico Kounduchowicz per raccomandargli il figlio. Kocmoluchowicz è l’uomo più potente della Polonia, ambiguo e terribile tiranno nelle cui amni era la sorte della Polonia minacciata dai bolscevichi e dalle orde cinesi: così Genezyp viene avviato alla carriera militare; prima, però, la principessa lo sottopone ancora ad una prova: vuole essere ben certa d’averlo denominato, d’averne fato un puro fallo erotico-dipendente.

Dopo una discussione

con Benz, Scampi e Basilio sui soliti temi politico-filosofici (Irene rivendica il dovere che le donne addestrino i giovani al mondo futuro), durante la quale Tengier (sotto l’effetto dell’alcool e dell’hashish) esegue una delle sue inaudibili sonate, la principessa porta nella camera da letto entrambi i cugini: Genezyp e Toldzio. Lo lascia un po’ nell’incertezza, in modo da fargli montare il desiderio, poi lo chiude a chiave a tradimento nel bagno e si concede al cugino Toldzio, lasciando la porta aperta in modo che Genezyp, salendo su una seggiola, possa vedere tutto.

Pornografia, morte, demonismo.

II. La famiglia Kanep si trasferisce in città per seguire Genezyp: la madre, finita la repressione autoritaria del matrimonio, ha scoperto i piaceri della vita e si porta dietro l’amante, Mikalski; con loro viaggia Benz, e Lilian se ne innamora, decidendo fra l’altro di recitare nel suo teatro. Sulla nazione grava una tensione angosciosa: i cinesi hanno preso Mosca e già dilagano in Romania; in Polonia il momento è gestito da un Sindacato della Salvezza Nazionale, cui aderisce anche la principessa, ma tutti guardano a Kocmoluchovicz.

Genezyp inizia l’addestramento militare,

benché il nuovo regime autoritario gli ricordi quello paterno; la principessa lo raggiunge anche lei e gli si concede in un altro furioso amplesso; al tempo stesso, con il vivo consenso della madre (a cui ha raccontato tutto), progetta di curare la sua ascesa politica, e gli propone di diventare una spia del sindacato presso Kocmoluchovicz, uomo misterioso di cui nessuno capisce il pensiero. Genezyp è disgustato sia dall’idea di fare la spia sia dalla sensazione che lei voglia prendere decisioni per lui, come se lo dominasse completamente, e forse ne è infastidito soprattutto perché lui è veramente impotente a resistere le sue brame erotiche. Per dispetto picchia Cylindrion Prietalski, uno dei capi del Sindacato.

Alla “prima” di Lilian

(un orrendo cumulo di scene efferate), Genezyp s’innamora di Persy, cortigiana depravata, amante di Koch, che gode nello straziare i sensi degli uomini. Genezyp, che è diventato un fedele ammiratore del grande ed indecifrabile condottiero (dal canto suo un abominio di volontà e di potenza, un incrocio fra Napoleone e Mussolini), cade totalmente in suo potere e viene portato all’esasperazione dall’impotenza a possederla.

Corteggiato dal colonnello Michal Weborek,

si sfoga aggredendolo a tradimento ed uccidendolo a martellate, dopo di che riceve una misteriosa missiva da parte del guru indiano Dzewani, sospetto emissario del mistico Murti Bing e degli incombenti comunisti cinesi, che gli fa capire di conoscere ogni sua mossa, e gli consegna alcune pillole a base di morfina.

Tutto si agita nella più totale ambiguità:

non si capisce cosa veramente preparino i cervelli e non si sa da che parte stiano veramente i bracci; lo stesso Kocho è sospettato di trattare di nascosto con i cinesi, e sta tramando di nascosto per scardinare il Sindacato dall’interno. Scoppia la rivoluzione, fomentata dal Sindacato, e Genezyp si batte per reprimerla, mentre Kocho, annoiato, fa l’amore in casa di Persy. Ferito ad una gamba, Genezyp si risveglia in ospedale ed al suo capezzale trova la vergine Eliza, che era stata presente al suo primo incontro con la principessa e poi gli era sempre rimasta nel subconscio come simbolo di purezza ed innocenza.
Genezyp, affascinato, le confessa l’omicidio e viene da lei convertito alla fede del Muti Bing, che predica un mondo d’automa meccanizzato ed asessuato, e di cui lei è fedele adepta; anche la principessa, ora disgustata agli occhi del giovane, ha abbracciato la nuova fede: l’unico a resistere a Tengier.

La casta Eliza

Promosso per il valoroso comportamento sul campo ed invaghito della casta Eliza, che non vuole rapporti prima del matrimonio, decide di mettere su casa con lei. La notte di nozze è un amplesso senza fine, durante il quale lei rinnega la sua fede ed abbraccia quella del piacere erotico, ed al termine della quale lui, per possederla totalmente in un estremo spasimo amoroso, la strangola e lei spira in un sospiro d’estasi.

Quando Koch

apprende (dalla sua stessa confessione) l’accaduto, scoppia a ridere, gli dice che ora ci sono cose più importanti (è la vigilia del primo scontro con i cinesi) e lo nomina suo aiutante di campo.
Il giorno della battaglia Koch è attanagliato da una crisi di coscienza, che antepone volere e potere; la battaglia contro le orde sterminatrici è persa in partenza, e, giudicando inutile uno spargimento di sangue, l’invitto condottiero proclama la resa. Gli ufficiali si ribellano e lui fa aprire il fuoco delle mitragliatrici sui loro reggimenti.

Invitato dal generale nemico

al suo campo, al brindisi si sente chiedere la mano della sua “vedova” (un modo elegante per comunicargli la sentenza di morte) per Wang e quella della figlia per l’erede di Wang, sì da fondere la razza bianca (in via d’estinzione) con la prorompente razza gialla: davanti alla condanna Koch resta un attimo interdetto se non sarebbe stato meglio morire in battaglia, ma poi afferra la prospettiva storica e scoppia in una gran risata.
Viene decapitato, e Persy bacia sulla bocca la testa mozzata. La notte stessa diventa l’amante d’un Genezyp freddo ed indifferente, e poi di tutta una serie di cinesi.

Dopo che il Sindacato ed i comunisti locali si sono scannati a vicenda,

i cinesi riprendono l’avanzata e puntano sulla Germania; anche Genezip, nell’osservanza della legge che impone alle due razze di mescolarsi, sposa una cinese: dal nuovo ordine emergono Tengier e Benz, la cui abominevole arte ha modo di spiegarsi senza limiti.
È la storia di due pazzie parallele, un erotomane succube di tutto e di tutti ed un superuomo malato di volontà di potenza, che tentano di sopravvivere in un mondo in rovina nella più sfrenata sregolatezza: dilaniata dalle lotte intestine fra Sindacato e comunisti, dalle droghe mistiche, dalla depravazione dei costumi e dalla tirannide, la civiltà occidentale affonda da sola, prima ancora di essere calpestata dalle orde dei mongoli.

Le due pressioni,

quella che dal disfacimento interno spinge alla battaglia e quella che dal terrore della minaccia incombente spinge a sfogare gli istinti più bassi, concorrono a svuotare l’animo dei due eroi, a prosciugare la loro volontà, a lasciarli inerti in balia del caso.
La pazzia dell’inerzia che scaturisce dall’ossessione e dalla depravazione. La civiltà è un dedalo di vicoli ciechi: o il comunismo, o gli invasori, o il misticismo, ecc.: in ogni caso è la fine dell’uomo libero e pensante; non ci sono eroi, soltanto vittime. Un orrendo massacro di corpi e di anime, un’orgia di rantoli.
Il sesso è specchio freudiano di tutto ciò: brutale, potente, ridicolo, umiliato, ecc.; le fantasie erotiche rappresentano l’ultimo margine dell’immaginario in una realtà che concede sempre meno vie d’uscita; è anche un sesso metafisico, tramite il quale si manifestano rimandi onistici e volontà di potenza.

 

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