Peter BROOK, Mahabharata, Conference des oiseaux

Peter Brook a 24 anni dirige il Covent Garden dove lavora con John Gielgud, Lawrence Olivier, Paul Scofield…

Peter BROOK

(1925 – 2022)

Peter Brook

Peter Brook

IN QUESTA PAGINA note su Je suis un PhénomeneLe CostumeLa mort de Krishna, Ta main dans la mienne


Peter Brook, nato a Londra nel 1925

da genitori d’origine russa, dopo una brillante laurea ad Oxford in letteratura comparata, iniziò ad occuparsi di teatro, a sentir lui, più per caso e per necessità economiche che per un interesse profondo: la sua passione dichiarata era infatti il cinema. Ciò non gli impedì di avere, a soli 24 anni, l’incarico di direttore artistico al Covent Garden di Londra, impegno che abbandonerà molto presto per tornare alla prosa, lavorando con i più grandi attori inglesi del tempo (John Gielgud, Lawrence Olivier e soprattutto Paul Scofield) e occupandosi sia del teatro elisabettiano sia di autori contemporanei.

La tournée europea

di Tito Andronico nel 1955 rivelerà Peter Brook, già molto noto in Gran Bretagna, al resto d’Europa. In questo periodo si interessa alle opere di Shakespeare considerate minori delle quali apprezza la “fluidità cinematografica”, affronta però anche i testi maggiori: Amleto (1955) e La Tempesta (1957). Sul finire degli anni ’50 e i primi anni ’60 realizza due film ispirati a romanzi: Moderato cantabile da Marguerite Duras e Sua Maestà delle mosche da William Golding; nel ’62 torna a Shakespeare con un memorabile Re Lear. Lo spettacolo, che passa per il rifiuto di ogni inutile decoro scenografico, segna una tappa fondamentale nel suo percorso artistico e in quello del teatro occidentale contemporaneo: lo spazio scenico diviene “vuoto”, saranno le parole, i corpi e l’energia degli attori a riempirlo d’immagini; il confronto con alcune, grandi tradizioni teatrali extraeuropee può dirsi già iniziato. Nel ’70 Re Lear avrà una brillante versione cinematografica.

Dalla metà degli anni ’60

la ricerca teatrale di Peter Brook si fa ancora più radicale, aumenta il lavoro sul corpo, sulla voce e sull’improvvisazione, l’amicizia e gli scambi con Jerzy Grotowski contribuiscono a rafforzare questa tendenza. Nel ‘64 nascono Marat-Sade di Peter Weiss e The Screans (Les Paravents) di Genet, nel ‘66 US , uno spettacolo sulla guerra in Vietnam. Nel 1968, da un laboratorio internazionale promosso da Jean Louis Barrault, nascono un Edipo Re da Seneca; un Sogno di una notte di mezza estate giocato con le tecniche  del circo e dell’Opera di Pechino e una nuova Tempesta, segnata da un forte sperimentalismo.

Nello stesso anno Brook pubblica il suo libro più noto, Lo spazio vuoto.

Nel 1970 si trasferisce a Parigi

dove fonda il CIRT (Centre International de Recherches Théâtrales) e realizza Orghast; lo spettacolo, considerato come il più portentoso lavoro sulla voce mai realizzato in teatro, viene rappresentato a Persepoli, in Iran, nel 1971. La ricerca teatrale di Peter Brook si fa planetaria: per sperimentare nuove possibilità di comunicazione e improvvisazione, con il CIRT viaggia in Africa e negli Stati Uniti. Chiamato successivamente a dirigere Les Bouffes du Nord a Parigi, vi allestisce spettacoli come Les Iks, Ubu aux Bouffes, Misura per misura, l’Os e la Conference des oiseaux, un affascinante Giardino dei ciliegi da Cecov e La tragedia di Carmen, dove si fondono perfettamente canto e recitazione. Nel frattempo ha realizzato un altro film, Meetings with Remarkable Men (Incontri con uomini straordinari), ispirato a un libro di Gurdjeff.

peter brookIl 1985 è l’anno del Mahabharata,

lo spettacolo, proposto al Festival d’Avignone, dura nove ore e può essere considerato come una summa del lavoro di Peter Brook; la versione cinematografica esce nell’89. Da allora ad oggi crea altri nove spettacoli la cui eterogeneità può dare la misura di una ricerca costante che ha come oggetto non solo il teatro ma la vita stessa: tra essi due opere liriche (Impression de Pelléas da Debussy e un Don Giovanni di Mozart), uno Sheakespeare (la Tempesta in versione francese), due lavori, l’Homme qui e Je suis un phenomène, tratti da opere di due neurologi, l’americano Oliver Sacks e il russo A.R. Lurija, Giorni Felici di Beckett e due spettacoli “sudafricani”, Woza Albert di Percy Mtwa e il recente Le Costume, tratto da un racconto dello scrittore Can Themba.

Peter Brook, ha realizzato complessivamente 47 spettacoli teatrali e 8 film, ha curato 5 regie di opere liriche, ha scritto 6 libri ed ha ricevuto più di 30 importanti riconoscimenti in ogni parte del modo, tra gli altri il Premio Europa per il Teatro a Taormina nel 1989.



Je suis un Phénomene

Dura da anni il sodalizio fra Piccolo Teatro e Peter Brook. Con grande gioia degli estimatori milanesi e non del grande regista inglese. Dopo “Sogno di una notte di mezz’estate”, “La tragédie de Carmen” e “La tempesta”, Brook ha portato, in questo mese di ottobre, al Piccolo Teatro Studio “Je suis un phénomène”. Uno spettacolo splendido, semplice, apparentemente spoglio, in realtà corposo, che lavora dentro, che non lascia ripari allo spettatore. Tratto da un libro del neurologo russo Alexander Lurija, adattato dallo stesso Brook e da Marie Hélène Estienne, tratta dell’identità, della memoria come unico mezzo che può salvaguardare la nostra esistenza.

Solomon Cerecevskij 

è un giornalista, ebreo di origine russa, di un quotidiano newyorkese. Solomon possiede una memoria prodigiosa. Il suo capo lo invia dal famoso neurologo per scoprire l’origine di questa capacità fuori dall’ordinario. Prima una lunga serie di visite, di test anche imbarazzanti, in seguito l’uomo diviene fenomeno da baraccone, attrazione nei circhi.

Ma la tecnica mnemonica

di Solomon crea scompiglio nella sua vita: associa i numeri, le parole che deve ricordare a ricordi della sua infanzia, in un paese della Russia. E non riesce a rimuovere questi “percorsi” che si crea: il suo vissuto si unisce confondendosi indissolubilmente a questi artifici precipitandolo in una crisi del suo stesso “io”. Solomon ricorda tutto quanto gli viene chiesto, ma dimentica se stesso. Ricorda lunghe serie di numeri e scorda le valigie alla stazione. E quando avrà perso identità e fiducia, scoprirà un amico nel dottor Lurija, un amico con il quale parlare anche di Dio e con il quale infine allontanarsi.

Brook rende il tutto con una scenografia essenziale,

un tavolo, poche sedie, degli schermi video alle spalle. Concentra tutto sul testo, sui movimenti perfetti e sull’interpretazione degli attori. Maurice Benichou è veramente strepitoso come Cerecevskij: trasmette ogni mutamento di stato d’animo del protagonista come meglio non si potrebbe. Il resto del cast è straordinario, con gli attori che sostengono più personaggi ciascuno.

Gli attori

Bruce Myers, il medico, è solo in apparenza distaccato; Sotigui Kouyate riesce con piccole variazioni (la camminata, i movimenti della testa, il gesticolare con le sue lunghe braccia) a rendere tipi molto differenti; ed anche Geneviève Mnich (la moglie, un’attrice famosa, un medico) è alla loro altezza. Da ricordare anche i giovani Pierre Bénichou e Natacha Maratrat.

Quanto a Salomon ha un che dell’alleniano Zelig, nel suo divenire da caso umano a patologico a fenomeno da baraccone, anche se il personaggio di Brook resta più reale, più complesso, in un certo modo più triste.



Peter Brook si conferma il regista della parola, del gesto, dell’immagine e dei grandi spazi disadorni

LE COSTUME

IL VESTITO. OVVERO IL RICORDO ONNIPRESENTE E DILANIANTE DEL TRADIMENTO COMMESSO DA MATHILDA (Princess Erika), giovane sposa di Philemon (Bakary Sangarè).

L’abito che l’amante (Cyril Guei) ha dimenticato nella casa della donna diviene, per atroce vendetta del marito Philemon, l’ospite perpetuo da trattare con ogni riguardo: “mangerà con noi”, dice Philemon, “e condividerà tutto con noi, dormirà con noi, e dovrai fare bene attenzione a lui, perché se dovesse andarsene o scomparire, io ti ammazzerò”.

E così il vestito

diventa una presenza crudele e angosciante nella vita di Mathilda che, proprio quando Philemon si decide a perdonare, muore di dolore, in silenzio, come se aspettasse un’ultima carezza dopo l’estrema umiliazione: una passeggiata a tre, con il vestito esibito sulla gruccia, per le strade di Sophiatown, città appena fuori Johannesburg.

Il teatro di Brook

è un teatro vuoto, essenziale, fatto di poche cose, qualche sedia, un letto, un attaccapanni. Eppure questa nudità e questo vuoto iniziano pian piano a popolarsi, a materiare una storia, ad abitare gli spazi, ad assumere sensi di volta in volta diversi ma tutti perfettamente veri, per cui una gruccia può essere una gruccia, ma nel momento successivo diventa un telefono, e non stupisce, perché è un teatro che si costruisce dentro l’azione scenica, e da essa trae la sua necessità. È un teatro che si alimenta di immaginazione e poesia, che prepara da sé le cose di cui ha bisogno, tazze di caffè, macchine da cucire, coltelli, panini imburrati assumono forma come usciti per incanto dalle mani degli attori.

   E’ la parola che dà forma anche a quello che non c’è, è lo sguardo denso degli attori, i loro gesti pieni e fatti di pura energia poetica, di presenza potentissima.

   La storia, tratta da un testo dello scrittore nero Can Themba, è raccontata dagli attori, i quali descrivono in terza persona l’azione che recitano, per cui di fatto non c’è un testo dialogato ma una narrazione di narratori-attori che narrano se stessi.

   Ancora Brook si conferma il regista del mondo in movimento, maestro della parola, del gesto, dell’immagine e dei grandi spazi disadorni, l’esploratore di mondi lontani come l’Africa, delle sue energie culturali, ma anche delle tensioni umane più intime e sottili.

   La magia che sa creare attinge alle radici più antiche del teatro, all’arte dell’attore e alla tradizione del racconto e ci lascia in dono un’idea: che il solo corpo può raccontare l’infinito dei mondi.

Eva Raguzzoni  20 aprile 2000



 

Mahabharata di Peter brookestratto dal Mahabharata

Peter BROOK: Mahabharata

con Maurice Bénichou

testi Jean-Claude Carrière e Marie-Hélène Estienne

musica e canti Sharmila Roy

produzione C.I.C.T./Théâtre des Bouffes du Nord

Durata 1h15′ senza intervallo

Presentato al Festival di Avignone nel 1985, l’epopea del Mahabharata può essere considerata come una summa del lavoro di Peter Brook.

La mort de Krishna

(interpretata da Maurice Bénichou, da quasi trent’anni compagno di lavoro di Brook) ne rappresenta un frammento, un estratto che il Teatro Argentina vuole offrire al pubblico italiano.”Cuscini orientali, un vecchio libro aperto, una maschera da elefante, una musicista che, seduta in tailleur, suona e canta melodie che vengono da lontano. Un attore che racconta, con gli occhi brillanti, La mort de Krishna. Un miscuglio di colori, musica, parole, movimenti che vi tuffa per poco più di un’ora nella dolcezza meravigliata di un mondo pieno di bizzarrie.

In quest’episodio del Mahabharata,

grande epopea di più di 100.000 versi scritta in sanscrito, si parla dunque della morte di Krishna, una delle più celebri metamorfosi di Visnù. Si parla anche delle sue quattro braccia, delle sue avventure, dei suoi poteri. Di guerra e di pace. Di sete e di deserto,d’amore e di orecchini, di clave, fulmini e massacri. Vi passeggiano parole ricche di mistero: conche, tre mondi, bramino, cannibale.

La musica

intride la scena di un’atmosfera magica e mette in evidenza la recitazione di Maurice Bénichou. L’attore sembra godere immensamente del piacere di dare vita a questo testo vecchio di duemila anni. Presta la sua voce – a tratti leggera, divertita, tonante – il suo viso – frizzante, serio, triste, ammiccante – ed un po’ del suo corpo, le cui evoluzioni sono ritmate dalla regia di Peter Brook. Gli esperti di Mahabharata apprezzeranno senz’altro di vedere l’opera piroettare così. Agli altri, basterà lasciarsi trasportare, e sognare”.

I Pandava e Kaurava

sono due famiglie di cugini che si disputano il dominio del mondo. I Pandava sono cinque fratelli Yudishira, il maggiore, colui che è designato ad essere re, Bhima, il secondo, uomo dalla forza fisica prodigiosa, Arjuna, il migliore guerriero del mondo, che possiede un arco magico chiamato Gandiva e infine i gemelli Nakula e sahadeva. I Pandava hanno un’unica moglie, comune a tutti, Draupaoi.IKaurava, la schiera contapposta, in numero di cento, sono guidati da Duryodhana, “il duro da sconfiggere”, re giusto e buono che l’ambizione spinge a travalicare i limiti del suo stesso carattere. Duryodhana è condotto alla guerra dal proprio fratello, Dushasana che ne è l’anima dannata. Sono i figli della regina Gandhari che, sposata ad un re cieco, porta perennemente una fascia nera sugli occhi.

Esseri leggendari

I Daitya, gli Yaksha, i Gandharva, gli Apsara, i Rakshasha, i Naga sono categorie di esseri leggendari, metà divinità o demoni.Il dharma è alla radice del pensiero indiano. Questa parola indica sia l’ordine del mondo sia ciascuno dei nostri dharma individuali, che noi dobbiamo conoscere e rispettare.L’originalità del pensiero indiano sta nello stabilire un legame tra il dharma individuale e il cosmo. Se gli uomini non rispettano il proprio dharma, finiscono per mettere in pericolo l’ordine del mondo. Hastinapura è la capitale del regno. E’ là, dopo la battaglia, che regna Yudishthira, per trentaseianni.Vyasa è il poeta che ha composto il Mahabharata, “per imprimere il dharma nel cuore degli uomini”

Da http://www.teatrodiroma.net



 

Olga Knipper e Anton CechovDalla corrispondenza di Olga Knipper e Anton Cechov

di Carole Rocamorra

regia : Peter Brook

con : Natasha Parry, Michel Piccoli

coproduzione : Théatre des Bouffes du Nord – C.I.C.T.

Peter Brook, Michel Piccoli e Natasha ParryNatasha Parry, Michel Piccoli

MILANO. Avevano recitato insieme nelle due parti principali del Giardino dei ciliegi di Peter Brook, Michel Piccoli e Natasha Parry, che oltre a essere moglie del regista è pure russa d’origine.

Ora Brook, che sempre più intensamente rilavora i testi già incontrati per sviluppare nuovi intrecci che li leghino, quasi cercando di dare un’unità al teatro della sua vita, è tornato a riunire questa coppia per incarnare due personaggi veri: Anton Cechov e la sua attrice e ispiratrice Olga Knipper, raccontati da loro stessi attraverso le più di 400 lettere scambiate nei sei brevi anni, compresi i tre di matrimonio, che durò l’insolito rapporto, concluso dalla morte dell’autore ormai famosissimo, per tisi a 44 anni.

Una storia d’amore

Ma la storia di questo amore fu assai strana, come si riscontra dalla curiosa commedia La tua mano nella mia, frutto di un’attenta manipolazione dell’esuberante malloppo epistolare da parte di Carol Rocamora (adattata in francese da Marie-Hélène Estienne), spulciando con morbosa attenzione e giuntando con qualche didascalia. L’insolito rapporto si reggeva infatti sull’assenza, perché lui, che era anche medico, soffriva del suo male fin dai primi incontri alle prove del Gabbiano e doveva cercar rifugio nei tepori di Jalta, se non era impegnato in lunghi viaggi per l’Europa; e d’altra parte la “cara attrice”, come lo scrittore la chiamava all’inizio, era costretta prima a Pietroburgo e poi a Mosca dal teatro, in particolare dai nuovi testi cechoviani di cui seguiamo il maturare.

La prima impressione

che esce dall’impasto è quella di un’attrattiva basata su una fuga continua che permette ai due di sfogarsi nella corrispondenza. Cechov non è assente solo perché il suo “cagnolino” prova i suoi lavori, ma perfino quando deve abortire; a un tempo soffre ed è crudele, e la sua originalità lo apparenta a tanti capricciosi bislacchi usciti dalla sua penna.

Michel Piccoli

Brook si trova quindi completamente a suo agio ad affidarne la parte a quel mostro di naturalezza che è Piccoli, sempre pronto a colorare i momenti più aspri di autoironia, facendo dello scrittore un personaggio mirabilmente attento e vitale nel cogliere in sé le contraddizioni del mondo; e gli risponde la maschera dolce che la Parry dà a una Knipper tutta affetto e teatro sopra alla gonna nera, celando ogni piega personale e segreta che esca dal tracciato, almeno finché raggiunge il ruolo vedovile. I due sono sistemati con le loro sedie su un tappeto chiaro sul grigiorosa, delimitato ai lati da altri tappeti arrotolati, secondo l’ideale di scenografica essenzialità del regista, già praticata dai tempi del suo Giardino.

Il finale

E i margini di assurdo della storia risaltano nel finale: da Cechov che brinda alla propria morte, alla sua salma trasportata in patria da Badenweiler in un vagone con la scritta “ostriche fresche”, all’attrice che continua a scrivergli anche dopo, tanto che lui ricomparirà a dare alla realtà un suggello di nonsenso. Sorge il sospetto che, come è successo al Giardino, considerato una commedia solo dal suo autore, il pubblico tenda a leggere come un dramma anche lo humour di questo remake d’una vita. Così almeno m’è sembrato avvenisse alla prima assoluta dello spettacolo al Teatro Studio del Piccolo a Milano, seguito dal pubblico in silenzio religioso e giustamente chiuso da una standing ovation.

di Franco Quadri

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