Università Teatro Eurasiano 2005

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Università Teatro Eurasiano 2005Università del Teatro Eurasiano, XII sessione 2005

“Testo teatrale e principi tecnici”

Caulonia giugno 2005, appunti di Marco GALATI

I Seminari teorico-pratici  della XII sessione della Università del Teatro Eurasiano sul tema “Testo Teatrale e principi tecnici”, si sono tenuti a Caulonia  nel giugno 2005 con la partecipazione di: Eugenio Barba, Julia Varley e Mia Theil Have (Odin Teatret), Franco Ruffini e Nicola Savarese (Università di Roma III), Ferdinando Taviani e Mirella Schino (Università dell’Aquila) e con Ana Woolf.

L’organizzazione è stata della Associazione Proskenion.

Quella che presentiamo è una selezione degli appunti redatti dall’amico Marco Galati che pubblichiamo senza correzioni o aggiunte.

Fermare sulla carta con poche righe, con degli appunti, una battuta, un esempio, una citazione, a volte ci permette, a posteriori, di ricostruire un’atmosfera, di riportare alla mente discorsi più complessi apparentemente perduti e che invece erano lì, appena sotto la superficie, pronti ad emergere di nuovo se solo li avessimo richiamati.

A questo potrebbero servire i presenti appunti che non sono un resoconto stenografico, non vogliono essere una fedele cronaca e neanche una registrazione, ma solo e nient’altro che appunti, dunque non hanno la sistematicità di un capitolo di un libro, eppure presentano la freschezza della presa diretta che riteniamo un utile promemoria sia per chi era presente, ma anche per chi non c’era.

Ringraziamo Marco Galati per il permesso alla pubblicazione e ricordiamo di aver già pubblicato i suoi appunti su:

Buona Lettura



Università del Teatro Eurasiano, XII sessione, caulonia 2005

Università Teatro Eurasiano 2005Ci capita spesso di vedere del teatro in cui gli attori recitano un testo. Nella tradizione teatrale è consolidata l’abitudine per cui un regista sceglie un testo, affida le parti agli attori, il testo può essere classico o contemporaneo, ciò non ha alcuna importanza, e gli attori si mettono a provare la loro parte. Esiste però il sospetto che in questo tipo di teatro ci siano solo delle forme prive di vita.

Possiamo chiamare “testo” le parole contenute in uno spettacolo se proprio vogliamo forzatamente dare una definizione di “testo teatrale”.

Ma per “testo drammatico” si dovrebbe intendere un testo articolato in parti che si sviluppano tramite i dialoghi, i monologhi, le azioni fatte dagli attori in scena. Spesso a teatro assistiamo a dei veri e propri naufragi. Il problema sta nel rapporto tra l’attore e la sua parte di testo?

Non dovrebbe esistere come rapporto diretto il rapporto tra l’attore e la sua parte di testo, ma come confronto di una cultura complessiva del testo.

La costruzione del personaggio, o meglio del personaggio nella sua parte, deve essere una costruzione a tutto tondo, e il personaggio alla fine deve nascere come se fosse una nuova creatura dell’attore. Per prima cosa l’attore deve creare il personaggio indipendentemente dalla parte che il personaggio ha nel testo. L’attore si deve immaginare il flusso della giornata del personaggio in modo da acquisirne l’indole psico-fisica. Non sarà ancora il personaggio della parte prevista dal testo ma sarà già un personaggio compatibile con la parte del testo che farà. In una seconda fase l’attore comincia a sognare ad occhi aperti le azioni ed i gesti del suo personaggio. L’attore deve imparare a vivere dentro un altro contenitore, diverso dal suo solito corpo, e, a questo punto, può provare a confrontarsi con la parte del personaggio. L’attore prova a confrontarsi con la linea fisica delle azioni e prima può avvicinarsi al personaggio, alla creatura che l’attore sta elaborando nel periodo di preparazione della parte in scena. Deve essere l’attore che entra nel personaggio, poi sarà il personaggio che comincerà ad eseguire la linea delle azioni fisiche ed infine potrà provare la sua parte. L’attore non si deve confrontare immediatamente con le parole della parte perché può guastarla irrimediabilmente e allora bisogna creargli un lungo percorso di preparazione tecnica per non lasciarlo in balia di se stesso, dei suoi cliches.

Il rapporto tra l’attore e la sua parte nello spettacolo non deve consistere in un rapporto (immediatamente) diretto ma deve arrivare a crearsi alla fine di un processo culturale complessivo. Esiste il “testo manifesto” cioè quello visibile ed udibile che dicono gli attori durante lo spettacolo ma poi esiste anche il “testo invisibile”, quello che fa di supporto al lavoro dell’attore.

Tela di ragno, corda, arazzo sono le tre componenti fondamentali e caratteristiche del testo:

tela di ragno → la funzione del testo che cattura la nostra attenzione, le nostre ossessioni

corda → l’anima che attraversa tutto lo spettacolo, che ha una sua coerenza, che garantisce in

               maniera diretta o trasversale il rapporto che si deve instaurare tra gli attori e il pubblico

arazzo → è il disegno finale, quello che il pubblico vede in scena, che può avere stili diversi ma

                 che alla fine deve comparire bene in scena; l’arazzo deve comunque sempre dare voce ad

                 una ferita aperta dalla tela di ragno

Il rapporto tra l’attore e le parole del testo deve crearsi, comporsi e strutturarsi attraverso delle mediazioni. Vogliamo usare testi o pretesti nei nostri spettacoli teatrali?

Chiameremo “intercapedine” lo spazio compreso tra il testo scritto e il testo messo in scena.

Il parlare quotidiano è molto diverso dal modo di parlare in teatro ed ancora diverso dal testo scritto. Nel testo scritto l’unità di misura è la punteggiatura, nel testo parlato l’unità di misura può essere il fiato che si ha a disposizione. Occorre fare una scelta delle parole chiavi nel testo per decidere cosa sia meglio sottolineare del testo scritto.

Si possono mettere, nel parlato, pause incongrue per la sintassi del testo, ma che creano in scena suspence, attesa, falsi interrogativi. Prima bisogna creare una grande mole di lavoro, un’enorme massa di possibilità, e poi per creare una composizione artistica bisogna saper tagliare e ancora potare, distruggere, bruciare gran parte del materiale creato. Il disordine è una zona in cui prolifera una grande vita artistica e dove si fanno scelte per mantenere il materiale migliore che più ci piace. L’acqua distillata non riusciamo a digerirla perché è troppo pura. Per riuscire a digerire l’acqua essa deve contenere qualche impurezza. Ecco perché è necessario il disordine nell’arte. Creazione del disordine per creare i migliori presupposti di quando poi il testo viene letto e recitato. Come se esistessero due monti diversi. Sulla vetta di un monte c’è il testo scritto, occorre scendere e risalire sulla vetta del monte opposto dove c’è lo spettacolo teatrale. Può anche succedere che, una volta scesi a valle, non si trovino le forze necessarie per risalire la china del monte opposto. Non è necessario che il testo sia pienamente e perfettamente comprensibile in teatro.

Il testo, per l’attore, è un confronto con qualcosa che gli oppone una forte resistenza. L’intercapedine è una domanda, è uno spazio di non conoscenza che ci inquieta ed è, forse, l’unico modo per capirlo e metterlo in scena. Un procedimento per prove ed errori e poi ancora prove, errori e rifacimenti nella creazione del nuovo testo teatrale.

Testo significa tessuto in scena e noi dobbiamo passare dal tessuto letterario al tessere in scena. Occorre pensare in categorie teatrali di azioni, il regista deve ricondurre il testo ad un filo di vita propria. Alla fine di uno spettacolo non è detto che si trovino risposte, l’importante è che restino in noi nuove domande. L’attore è un fante che lavora passo dopo passo e che deve prendere possesso del territorio teatrale. Scendere a valle per poi risalire sulla vetta di un altro monte. Partire dal testo letterario per passare al dramma teatrale tramite il materiale creato dalle improvvisazioni degli attori. Passare insomma, da una ad un’altra forma artistica che è lo spettacolo teatrale riuscendo a mantenere o ricreando le emozioni che si erano provate quando si era letto il testo scritto.

Esiste nella pratica teatrale un problema di come allontanarsi dal testo senza tradirlo. Non dobbiamo più guardare i testi teatrali come se fossero storie ma dobbiamo imparare a guardarli con una prospettiva diversa, come se fossero l’equivalente del lavoro degli attori e del loro regista.

Esiste il problema del depistamento dello spettatore, bisogna portarlo in giro per un po’ prima di mostrargli tutto con chiarezza. Quale può essere il meccanismo di base di una storia? Si può provare a disseminare nel tessuto dello spettacolo elementi di tensione, di continui spostamenti di attenzione, per manipolare l’interesse dello spettatore e farlo deviare in continuazione, fargli perdere la cognizione del tempo e dello spazio per poi rimetterlo sulla carreggiata giusta e condurlo alla meta finale. Calibrare con maestria artigianale e con il giusto dosaggio il rapporto tra il testo e la sua messa in scena. Possiamo provare ad allontanare le due diverse parti (testo e messa in scena) tanto poi tendiamo inconsapevolmente a riunirle. Le tecniche sono state create dai maestri di teatro per mettere in rapporto le esperienze del vivere quotidiano con l’arte in scena, cercando di creare tra questi due diversi elementi la giusta distanza. Nel XXI secolo noi siamo ormai come su una spiaggia in cui l’oceano del teatro e dei testi dei secoli precedenti ha depositato una moltitudine di cose. E’ un mondo fluttuante di immagini e di memorie che ci arriva dal passato. Tutto questo è frastuono, confusione e quando facciamo teatro dobbiamo difenderci dal passato che ci condiziona. Non sono cambiate le storie che si raccontano ma è cambiato il modo di presentarle al pubblico.

La parola “esempio” è ambigua perché può stare per “esemplificativo” o per “esemplare”.

Per “esemplificativo” intendiamo una serie di cose simili tra loro (ad esempio uno stesso modello di automobili).

Per “esemplare” intendiamo un esempio illuminante che può solo mostrare divergenze con gli altri (ad esempio i diversi stili di regia). “Esemplare” rende evidente alcuni principi comuni che poi si diversificano completamente nei diversi casi specifici.

La regia è la capacità di tenere saldamente in mano tutti gli elementi che confluiranno nello spettacolo usando al meglio tutte le cose che si hanno. L’attore non può rapportarsi direttamente con la sua parte ma deve prima trovare le opportune forme di mediazione.

Chi garantisce la coerenza della parte di un personaggio all’interno dello spettacolo? Stanislavskij tramite il suo procedimento nelle prove si poneva l’ambizioso obiettivo di far nascere delle creature umane intere che il pubblico può vedere nel momento che dicono le battute di un testo facendo le azioni che la parte prevede in quello specifico “momento di vita” in scena. Bisogna lavorare con quello che si ha, ma in che modo? Ciò dipende da tante cose, non esistono regole precise e definitive. Ogni situazione è in realtà specifica proprio nel contesto generale in cui si opera.

C’è la necessità dell’esistenza di un diaframma (intercapedine) tra testo (parte) e personaggio (attore), e poi il montaggio delle diverse parti degli attori tramite il lavoro del regista nella creazione dello spettacolo finale. Non esistono trucchi magici per assolvere a questa funzione. Mejerchol’d dapprima dissociava e scomponeva le linee performative delle azioni e del testo e poi le ricomponeva. Il teatro deve essere un insieme di forze e non di forme. Nessun tipo di teatro può fare a meno di confrontarsi con il problema di collegarsi, prima o poi, al testo da cui deriva, di trasformarlo in “vita in scena” e della sua “messa in scena”. Che ci piaccia o no, alla fine di uno spettacolo teatrale ciò che rimane del teatro fuori dal teatro è proprio il testo, quando lo spettacolo è finito. Il testo è una lente deformante che appiattisce il teatro. Lo spettacolo teatrale è architettura tridimensionale nello spazio e nel tempo; il testo rimane sempre un disegno bidimensionale.

Il problema del testo, della sua scelta, è un problema marginale del pianeta teatro, perché in realtà non è un problema così fondamentale perché, al limite, il testo può essere solo un punto di partenza, un’intercapedine necessaria per giungere al punto di arrivo. Tra una parete e l’altra ci deve essere una zona vuota (intercapedine) che non permette passaggi diretti ma che è utilizzabile per effettuare passaggi indiretti per prove ed errori.

Dobbiamo disporre di una certa quantità di elementi per fissare quali saranno gli elementi chiave del montaggio finale dello spettacolo. Esistono testi senza parole? Sicuramente sì basta pensare al cinema muto, al mimo e alla danza. Esiste inoltre il problema della verosimiglianza poiché il testo spesso si allontana in modo inaccettabile dalla realtà quotidiana. Ciò può spiegare perché con il tempo il testo è diventato così importante, perché la sua storia e le battute dei personaggi ci davano l’impressione del vero a differenza della danza, del mimo, dell’opera lirica. Nel teatro esseri umani si occupano di mostrare altri esseri umani, questo è il grande handicap, la grande sfida del teatro, e questo spiega perché ci disturba la deformazione che in altre discipline artistiche è invece accettata o addirittura voluta.

Il problema del testo teatrale è un problema particolare di un problema più generale e cioè: lo spettacolo finale. Il testo è un punto di partenza all’inizio delle prove di uno spettacolo, ma diventa anche, alla fine del lavoro di creazione e di montaggio, un punto di arrivo dello spettacolo teatrale. L’intercapedine è una zona che sta tra il punto di partenza e il punto di arrivo, ci sarà sempre durante la preparazione di uno spettacolo teatrale.

L’intercapedine è una zona di distruzione di elementi, ritenuti superflui, non necessari, per il processo di creazione, di avvicinamento alla fase finale di costruzione dello spettacolo.

In realtà, nel momento in cui ciò accade il gruppo teatrale vive questa fase, nella logica tecnica delle prove e degli errori, come un momento di allontanamento dallo spettacolo. In questa tipologia di processo creativo si spreca molto materiale ed è logico che può permettersi di farlo solo chi ha accumulato un sacco di possibilità. Non serve solo saper scrivere testi, bisogna anche essere capaci di tagliare. E’ una forza d’animo grandiosa quella che ci permette di accumulare molto materiale pur sapendo che, dopo, una parte di esso verrà distrutto. Le possibilità buone possono essere molte, quindi si deve essere consapevoli che accadrà anche di gettare cose buone. D’altra parte prendere un testo e metterlo direttamente in scena non funziona. In geometria, la linea più breve tra due punti è costituita dalla linea retta che li unisce. In campo artistico questa regola geometrica non vale, anzi… è meglio usare l’arzigogolo, che è una linea che procede a zig zag, cambia continuamente direzione e non è affatto la linea più breve nella distanza tra due punti. Un gruppo teatrale deve avere delle cose in comune (tecniche di training, materiali creati dall’improvvisazione) per creare uno spettacolo. Il punto di partenza di uno spettacolo, il tema, il testo, prima lo si pone e poi lo si scompone. Scomporre è un verbo molto diverso da decomporre. La scomposizione, e non la decomposizione, ci porta su tante strade diverse e tutte possibili ed ugualmente percorribili. Noi siamo vivi finché siamo creativi, ciò accade in modo naturale quando siamo fanciulli o adolescenti, dopo corriamo il rischio di non vivere più, ma solo di sopravvivere. Per questo durante la fase di creazione di uno spettacolo è molto importante accumulare “disordine creativo”. Nell’arte gli errori sono, a volte, proficui perché ti portano in direzioni inaspettate che si rivelano poi fonti preziose da cui attingere a piene mani. Le soluzioni spesso vengono fuori anche da elementi di necessità. Le circostanze in cui il gruppo si trova a lavorare spesso crea casualmente le soluzioni artistiche che poi si porteranno in scena. L’intercapedine nel lavoro degli attori, anche in riferimento al testo, non produce subito in modo diretto materiali di buona qualità. Dobbiamo creare la zona del disordine, accumulare materiali che non appartengono al punto di partenza (al testo) e che, molto probabilmente, non saranno quelli che verranno mostrati alla fine. E’ un mare con onde che ti trascinano qua e là e nel frattempo tu cerchi di capire dove trovare un punto di approdo. E’ importante per un gruppo teatrale saper creare l’intercapedine ma ancora più importante è sapere come uscirne. Seguire gli esempi del passato non serve, non funziona, però è bene conoscerli per trovare i propri segmenti di percorso. E’ importante appoggiarsi su un testo organico e ben definito, un testo-stampella su cui ci si può camminare come su un ponte che va verso gli spettatori. Occorre tessere un tappeto con i suoi fili, disegni, forme, consistenza, qualità del tessuto e il suo messaggio può essere esplicito o cifrato.

Il testo teatrale ha una sua precisa dicotomia: da una parte è la storia che si narra, dall’altra è la forma, la struttura stessa del testo con la sua musicalità, il suo ritmo, le sue dinamiche. Chi scrive testi ha la necessità di attrarre le persone con la bellezza del loro testo, questo fatto molto importante l’attore non deve mai dimenticarlo come anche il lavoro di sincronia e cioè di mettere insieme, durante la fase di costruzione della propria performance, l’impulso vocale e quello fisico. L’azione e la descrizione di un’azione sono due cose molto diverse per gli attori quando sono in scena.

L’azione non deve essere statica ma deve muoversi nello spazio scenico. L’azione deve sempre partire dai piedi e la tensione e l’energia deve continuare a rimanere nei piedi finché l’azione non è finita. Per trovare sincronia tra azione e testo, un attore deve sapere cos’è un’azione.

Ogni azione ha:

un inizio – un momento di cambio (di trasformazione e di transizione) – una fine

Esistono molti modi per rendere viva un’azione in scena, ogni attore deve saper scegliere il suo modo, il suo metodo di lavoro. Il viso deve partecipare all’azione come fosse un’eco. Il processo creativo consiste nel buttare via molte delle cose che si sono create durante la fase di creazione dei materiali. Alla fine del percorso di creazione il testo non deve più appartenere a chi lo dice ma a chi lo ascolta; bisogna dimenticarsi di essere artisti e ricordarsi di essere dei buoni artigiani.

Esiste un’importante dicotomia: testo teatrale → testo spettacolare.

Un’opera può essere composta appositamente per essere messa in scena oppure un drammaturgo o il regista del gruppo teatrale traspongono il testo letterario nelle azioni (fisiche e vocali) che verranno eseguite in scena. Grotowski è stato il primo regista nel ‘900 a sottolineare tale questione. Mejerchol’d aveva già lavorato sulla questione dell’organicità in teatro, la capacità cioè, da parte dell’attore, di provocare un effetto di convinzione sullo spettatore e lo otteneva separando le parole dalle azioni. Prima si interpreta il testo su movimenti plastici di azioni e reazioni fisiche e poi si fa lo studio del senso e del significato del testo insieme al tono della voce e alla forma estetica con cui vengono pronunciate le parole. Quando si lavora con un testo è importante salvaguardare la conflittualità dei rapporti tra i personaggi.

Come si può preservare o ricreare in scena la tensione letteraria che sempre esiste nel testo? Non bisogna avere la tendenza come regista, soprattutto nei momenti di difficoltà creativa, a vivere il testo come una stazione sicura da cui partire o a cui tornare. Una cosa è lavorare su un dialogo che ha la sua logica, la sua coerenza, il suo ritmo, tutt’altro è lavorare su un testo poetico che allude e viaggia continuamente su binari di suggestioni emotive e immagini metaforiche.

Solo alla fine del processo di creazione dello spettacolo e cioè quando andremo in scena, sapremo finalmente quale sarà il testo dello spettacolo teatrale.  Esistono due modi differenti di avvicinarsi ad un testo: fare lo spettacolo per difendere il testo letterario da cui ha avuto origine (ascoltare la voce dei morti) oppure lavorare con il testo come se fosse uno dei tanti elementi della messa in scena. Il testo deve essere una delle forze evocatrici dello spettacolo.

L’attore deve fare azioni precise, cioè solo azioni necessarie per illustrare, descrivere, contrastare o confondere il testo parlato. Le informazioni che l’attore deve mettere in scena sono associazioni a volte contrastanti tra loro. Il problema dell’accento forte di un attore in teatro, di una cadenza dialettale, fa subito passare un’informazione che in realtà non è contenuta nel testo. Occorre trovare una deformazione del modo normale di parlare e un tentativo di amplificarlo. Quando si legge un libro in silenzio nella propria camera, lo si legge secondo le convenzioni letterarie della scrittura, cioè lo leggete come l’autore lo ha scritto. L’oralità deve invece avere una sua organicità completamente differente. Grotowski voleva che i suoi attori imparassero a memoria il testo prima delle prove. Leggevano senza pause finché il fiato glielo permetteva e segnavano sul testo dei segni per indicare dove era necessario respirare. Le pause segnate sul testo per respirare creano dei momenti di sospensione che hanno subito un effetto “drammatico” nel senso teatrale del termine. Grotowski sceglieva delle melodie popolari cattoliche e le metteva sui testi in modo che gli attori potessero salmodiare i loro testi. Questa canzoni popolari hanno un grande significato sia per gli attori di Grotowski che per il loro pubblico. Gli spettacoli di Grotowski e il loro modo di usare il testo non hanno lasciato alcun segno nelle scuole tradizionali di teatro. Grotowski infondeva specifiche sonorità nei suoi testi. Ricordatevi che il parlare è molto diverso dallo scrivere. L’attore può parlare in modo che si evidenzi la somatizzazione di ogni parola. La voce è realmente un’onda sonora che si propaga, si espande nello spazio scenico e che ti deve incantare per il suo stesso suono e ritmo. Le voci ti scuotono dentro, ti devono dare scosse forti. Gli attori di Grotowski si mettevano a parlare davanti ad un muro in modo che la voce arrivasse e tornasse dal muro agli attori. Bisogna provare ad imitare le voci che si sentono nei dischi. Si imitavano diverse voci facendo training e acrobazie. Occorre scoprire il modo di comunicare e di evocare tramite il suono della voce mentre si declama il testo. Bisogna mettere in atto un processo di trasformazione (estraneamento) e di amplificazione della voce. La comunicazione verbale è sempre limitata quando non lavori con la tua lingua madre. Gli attori dell’Odin abbiamo usato lo stratagemma della cantilena in scena. Il testo non può essere semplicemente preso dal copione scritto e poi recitato (letto) immediatamente. La voce è un importante campo d’azione del teatro dove esistono solo regole individuali, a differenza del campo delle azioni fisiche dove esistono regole generali che possono essere valide per ogni attore. Come si può ricreare in scena l’equivalente della vita quotidiana?

Il peso del corpo di un attore va trasformato in energia. Quando siamo seduti ci manca la spinta verso l’alto che invece esercitiamo quando siamo in piedi per non precipitare a terra a causa della forza di gravità. Perché l’attore abbia energia in scena (presenza viva) devono esserci delle tensioni necessarie affinché si sviluppino azioni. L’attore però deve, per tutto il tempo che sta in scena, essere preparato a fare un’azione in modo che non dia anticipatamente al pubblico un segnale di preparazione dell’azione e finisca sempre per sorprenderci. In realtà l’azione non deve mai finire altrimenti cessa la tensione che rende viva la presenza, anche quando si sta fermi in scena. Nella logica energetica degli esseri umani non esiste mai una sola forza ma è sempre presente una coppia di forze (impulsi e loro forze opposte).

Per andare avanti, si parte inizialmente con un impulso che va in direzione opposta, cioè all’indietro. Bisogna provare a dilatare o a ridurre il volume delle azioni, dare continuità alle azioni. Se si dimezza il volume di un contenitore raddoppia la pressione che le particelle del gas presenti nel contenitore esercitano sulle pareti del contenitore. Ciò vale anche per le azioni. Quando riduciamo il volume delle azioni fisiche eliminiamo i gesti decorativi, superflui, non necessari, migliora la tonicità, la tensione energetica (muscolare) del corpo in scena, che così diventa una presenza viva, organica.

Il testo è lo spintone che ci butta in acqua e ci costringe a dimenarci e a nuotare, altrimenti affoghiamo. Ciò che ci deve interessare del testo è la complicità che ci possiamo trovare perché ci sarà estremamente utile e ci potrà guidare su nuove strade. Il gruppo teatrale deve dialogare con il testo.

Dobbiamo fare un passo verso il testo, ma il primo passo, per il principio delle forze uguali ed opposte, deve allontanarci dal testo. Questo primo passo verso il testo deve avere le caratteristiche del depistamento. Ma non devo depistare lo spettatore, devo depistare me stesso come regista, i miei attori che stanno per preparare i materiali che una volta tagliati, trasformati e montati, porteranno in scena. Bisogna evitare di illustrare, di descrivere le azioni, ma creare solo suggestioni, atmosfere. Questa tipologia di processo creativo continua ad allontanarci dal testo anche se in realtà il testo io non lo abbandono mai. Il testo deve essere un insieme di forze affinché non venga stritolato dalla tecnica dell’attore. E’ importante lavorare su materiali differenti che gli attori propongono, materiali che sono scomposti nei vari elementi che li compongono: ritmo, musicalità, voce, testo, azioni fisiche. Il significato di ogni singola parola acquista molta importanza in relazione ad ogni singola azione. Scegliere un’azione tra le tante che vengono proposte perché nel nostro sistema di memoria fisica sensoriale provoca delle associazioni che ci sembrano funzionare meglio di altre. C’è una continuità nelle azioni ma ci sono anche azioni che rappresentano dei vuoti. La tecnica dell’intervallo è un cambio di intonazione, sono degli stacchi (dei cambiamenti) sia della voce che dice il testo che delle azioni contenute nella partitura fisica. Durante la preparazione della scena e il suo montaggio bisogna osservare i piedi degli attori dove c’è grande tensione, energia, che sostiene tutto il peso del corpo, particolare a cui il pubblico quasi mai presta molta attenzione perché invece è concentrato sul volto, sulla parte superiore del corpo, a ciò che l’attore dice. Si può pensare al testo come punto di partenza per creare strade diverse e contesti diversi.

Ideoplastica è la capacità di trasformare un pensiero in un’immagine fatta di precise azioni fisiche.

Arzigogolare è fondamentale per il processo di somatizzazione per cui un pensiero diventa azione fisica. Esistenza di una corrispondenza tra la presenza scenica extra-quotidiana e la qualità delle azioni fisiche fatte in scena. Ripetere in maniera sempre uguale delle azioni ci permette di comprendere le forze che stanno dietro un’azione. Si creano ad un certo punto, dei nuclei dinamici che vengono fissati in testo più azioni senza soluzione di continuità. La prima cosa che deve fare un attore è apprendere a memoria il testo in modo che il testo abiti in lui e la sua testa non deve più preoccuparsi di tenerlo a memoria.

Tutto il lavoro dell’attore ha a che fare con un livello di energia che può fare andare avanti il processo di creazione. Occorre trovare le connessioni logiche all’interno dei materiali proposti dagli attori. La libertà di creazione artistica consiste nella libertà di dire e di realizzare delle cose. L’attore deve negare l’azione e, allo stesso tempo, deve farla. Creare un certo grado di indeterminazione che deve contagiare l’attore prima e lo spettatore dopo nel non sapere cosa accadrà e allora sì che ci sarà stupore e sorpresa. Quando poi nel concreto cominci a lavorare allo spettacolo tutto si abbassa di livello poiché si passa a materiali concreti. Come si fa a trasmettere lo stupore iniziale che si crea nelle prime prove quando si è finito di costruire lo spettacolo? Come far somatizzare il testo agli attori in modo che loro ti stupiscano? L’effetto di stupore si costruisce in modo che il testo appaia all’inizio come un’illustrazione, una descrizione. I testi classici sembrano innocui ma ad un certo punto inseriscono qualcosa per disorientarti. Lo stupore è come un’onda enorme che viene verso di me e mi lascia attonito. Il regista deve continuamente creare al suo attore degli ostacoli, delle scomodità, delle difficoltà, mai essere condiscendente nei suoi riguardi, per il suo bene. Non bisogna necessariamente fare un’azione in maniera realistica, puoi invece evocarla.

I testi come “punti di partenza” ci servono per “errare” sia nel senso di vagabondare, arzigogolare, ma anche di sbagliare; il doppio senso del verbo “errare” è funzionale per il processo creativo. Bisogna avere un “punto di partenza”, un porto da dove partire, prima di mettersi ad “errare”.

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