Nascita della regia teatrale: storia di un’inconsapevolezza
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Nascita della regia teatrale: storia di un’inconsapevolezza
di Ornella Rosato
Le tesi maggiormente diffuse intorno all’avvento della regia sono due: una che vede la regia come avvenimento prettamente novecentesco, nato da una volontà di svecchiamento delle istanze teatrali e sorretto da spettacoli dall’alta caratura spirituale e sociale; l’altra che considera la regia un modo naturale di fare teatro, rinvenibile, seppur con prassi differenti, in ogni epoca.
Ringraziamo l’autrice e il sito https://webzine.theatronduepuntozero.it/ per il permesso alla pubblicazione
P.S. Ci fa piacere ricordare che sullo stesso tema abbiamo già pubblicato una presentazione del testo della Prof.ssa Schino “La Nascita della Regia Teatrale”
Nascita della regia teatrale: storia di un’inconsapevolezza
di Ornella Rosato
La nascita della regia è un fenomeno dagli esiti storici e storiografici profondamente complessi che continua a essere argomento di fervidi dibattiti e oggetto di perspicaci intuizioni, avvolta com’è nel suo seducente manto di mistero.
Nascita della regia: la questione storiografica
Storicamente la questione presenta una problematica di fondo legata alla difficile individuazione della data d’esordio della vicenda teatrale, mentre dal punto di vista storiografico, la complessità è da ricercare nella fitta trama di interpretazioni critiche degli eventi, che finisce per costituire la conoscenza obiettiva che si ha del fatto stesso. L’origine incerta è ciò che canalizza l’attenzione degli studiosi teatrali verso la regia, una questione la cui liminalità ne fa uno snodo storiografico di importanza cruciale. Il fenomeno, di fatto, segna un momento di transizione tra un modo di produzione teatrale e l’altro, ponendosi come lente d’ingrandimento con cui analizzare la storia del teatro.
Le tesi maggiormente diffuse intorno all’avvento della regia sono due: una che vede la regia come avvenimento prettamente novecentesco, nato da una volontà di svecchiamento delle istanze teatrali e sorretto da spettacoli dall’alta caratura spirituale e sociale; l’altra che considera la regia un modo naturale di fare teatro, rinvenibile, seppur con prassi differenti, in ogni epoca.
Vi è però una terza ipotesi, quella dell’”assolvenza dolce”, ascrivibile alla riflessione dello studioso Umberto Artioli, qui privilegiata, che considera lo scivolamento dei principi strutturali ottocenteschi nelle pratiche teatrali del Novecento, come il momento fondante del fenomeno registico.
La progettualità e la responsabilità che nel teatro del Novecento appartengono al regista, sono dunque appartenute, nel teatro d’ogni tempo, a qualcuno che della messinscena si è occupato in qualità di supervisore. Una supervisione affidata, nelle diverse epoche, al metteur en scène, al regisseur, al mecenate, all’impresario teatrale, all’autore, all’attore e infine, con modalità critiche d’intervento, al regista.
Se delle mansioni dei responsabili dello spettacolo finora citati, si parlerà nelle successive disamine dedicate alla storia della regia, il metteur en scène e il regisseur meritano, fin da subito, un approfondimento di carattere teorico. Più che a livello etimologico, infatti, i due termini sono utili a livello storico per definire i confini entro cui posizionare quegli eventi e quelle esperienze che possono essere considerate protoregistiche o registiche: il termine metteur en scène, comparso in Francia negli anni trenta dell’Ottocento, si riferisce alla presenza cosciente di una nuova figura professionale che inizia, esplicitamente, a organizzare la messinscena; il regisseur, in francese “amministratore”, non è ancora il regista novecentesco in senso pieno ma è colui che, negli anni che vanno dal 1870 al 1900, raccoglie l’assestamento delle conquiste protoregistiche e del loro carattere demiurgico.
L’avvento della regia teatrale
Come si è detto, l’avvento della regia teatrale rappresenta un punto chiave della vicenda storiografica teatrale, segnando il passaggio da un sistema di produzione spettacolare all’altro: a partire dagli anni settanta dell’Ottocento, si registra la scomparsa di quel “teatro dei ruoli” che aveva orientato, per almeno tre secoli, le modalità produttive del professionismo attorico. Il ruolo, catalogando i personaggi in prestabilite tipologie umane, richiedenti doti tecniche e fisico specifici, consentiva all’interprete di accelerare i tempi di preparazione. Ogni attore andava così specializzandosi, durante la propria carriera, in un determinato ruolo avente una costruzione di stampo seriale e adattabile alle singole parti di copione che di volta in volta gli venivano affidate.
L’inserimento in repertorio di un nuovo copione non prevedeva una lettura integrale dello stesso da parte degli attori della compagnia, comportando una cura inesistente della concertazione della recitazione d’insieme, nessun rispetto del testo drammatico di riferimento – spesso soggetto a interpolazioni – e la predominanza degli attori protagonisti sulle scelte artistiche. Il tempo minimo dedicato alle prove, inoltre, consentiva agli impresari di produrre un gran numero di spettacoli per stagione con un ottimo tornaconto in termini economici. A organizzare la messinscena dal punto di vista artistico, i capricci narcisistici del primattore o della primattrice che finivano per prevaricare le esigenze di ogni comparto produttivo, intervenendo sul montaggio delle scene e persino sul testo.
Emblematico a tal proposito il caso della primattrice Adelaide Ristori che, per far risaltare il personaggio di Lady Macbeth da lei interpretato, rimaneggiò a tal punto il copione del Macbeth di Shakespeare da indurre la critica a rinominare la tragedia Lady Macbeth.
Il regista, dunque, insediandosi in un teatro di privilegi in qualità di garante del testo drammatico, sollecitando il lavoro d’insieme e imponendo la disciplina nel nome dell’unità estetica della messinscena, pone fine al divismo attorico e al sistema dei ruoli, aprendo le porte all’ascesa professionale dei dilettanti. Sempre più spesso, infatti, i registi preferirono collaborare con attori inesperti, privi di una formazione accademica, perché risultavano più naturali nella recitazione e più adatti al lavoro collettivo tipico della compagnia.
La compagnia dei Meininger
Tralasciando il clamoroso ritardo italiano, i primordi della regia si registrano in tardo Ottocento nel ducato tedesco di Saxe-Meiningen dove il duca Georg II e Ludwik Chronegk avviarono una sostanziale riforma del teatro lavorando con la compagnia dei Meininger. Il rivoluzionario disegno artistico del duca era improntato alla realizzazione di spettacoli di stampo naturalista con esatta ricostruzione storica degli eventi narrati e una resa organica e coerente della messinscena. Fedeli alle intenzioni del drammaturgo, alla volta dell’uniformità di ogni coefficiente scenico, i Meininger si sottoponevano a un gran numero di prove durante le quali vigeva una rigorosa disciplina.
La scena venne completamente rinnovata: gli oggetti di scena erano reali, non più dipinti sui fondali e dunque utilizzabili da parte degli attori; i costumi e gli accessori ricalcavano quella volontà di correttezza storica e di naturalezza che si riversava anche nella recitazione degli attori, i quali, ricercando la spontaneità, abitavano tutto lo spazio e iniziavano a voltare le spalle al pubblico. Il duca-regista preferiva ingaggiare attori giovani e inesperti che potessero adattarsi più umilmente alla disciplina e all’equilibrio della compagnia, distribuendo i ruoli in base alle peculiarità individuali, senza mai permettere a chi interpretava ruoli di spicco di prendere il sopravvento sul resto della troupe. Elemento distintivo degli spettacoli dei Meininger erano le scene di massa per le quali veniva impiegato un gran numero di comparse che, come il resto della compagnia, doveva sottoporsi a diverse prove in modo che questa moltitudine umana non intralciasse l’azione drammatica principale ma l’armonizzasse.
La lezione del duca Georg II echeggia nelle esperienze dei primi registi appartenenti alla scuola naturalista.
Raccontare la nascita della regia teatrale significa tenere conto dell’operato di André Antoine e della fondazione del suo Théâtre Libre
I principi del Naturalismo diffusi già in ambito letterario per merito di Zola, vennero applicati da Antoine al teatro con la volontà di analizzare le passioni umane all’interno di un impianto scenico fortemente realistico. Per fuggire la censura, per offrire a giovani attori e drammaturghi l’opportunità di esprimersi, per avere la piena possibilità di rappresentare il repertorio naturalista e di mettere in scena pièces straniere, Andrè Antoine eresse a Parigi, nel Circolo Gaulois, il suo teatro. L’inaugurazione del Théâtre Libre, nel 1887, va considerata come il primo vero attacco belligerante alle convenzioni sceniche francesi contemporanee, con annessa proposta di rinnovamento sostanziale dell’Istituzione Teatro.
Seguendo la lezione naturalista, le messinscene curate da Antoine avevano un alto grado di realismo e miravano a informare lo spettatore, attraverso i dettagli scenografici, gli arredi, i costumi, gli accessori, della condizione sociale dei personaggi, nonché del tempo e del luogo in cui essi vivevano. Un innovativo studio della luce, indusse il regista a sostituire le luci di ribalta con proiettori elettrici che, in base al loro posizionamento, producessero una luce naturale che sembrava provenire dall’esterno a illuminare, attraverso porte e finestre, la scena.
I drammi borghesi furono tra i più rappresentati nel teatro ottocentesco e Antoine ne raccontava le storie mostrando uno spaccato sociale veritiero, per cui era attento anche alla ricostruzione esatta delle dimensioni delle abitazioni dei personaggi di questa nuova drammaturgia, estremamente più ridotte delle ampie sale dei palazzi nobiliari che fino ad allora si erano riprodotti sulle scene. A tal fine, l’espediente cui il regista francese era solito ricorrere erano le scene costruite “a scatola”, che riducevano l’estensione del boccascena.
L’attenzione per la configurazione dello spazio era finalizzata a convincere lo spettatore della realtà della porzione di vita riproposta. A partire da questa nuova piantazione, si origina una delle maggiori innovazioni introdotte da Antoine, successivamente divenuta una convenzione teatrale, tuttora vigente. Ogni scena corrisponde a un interno, una stanza, avente dunque quattro pareti. Terminate le prove, quando il lavoro è pronto per essere sottoposto all’attenzione del pubblico, uno dei quattro lati verrà astrattamente eliminato. L’apertura della cosiddetta quarta parete, fa sì che gli attori, rivolgendosi l’uno all’altro e non più al pubblico, spostino il fuoco dell’azione dalla sala al palcoscenico, rendendo lo spettatore un testimone invisibile. La recitazione di Antoine e dei suoi attori, per lo più dilettanti che imparavano il mestiere direttamente in scena, era sobria seppur sempre attenta, pulita dei clichés interpretativi e sostenuta da gesti quotidiani richiamanti la spontaneità della vita d’ogni giorno.
L’autore del testo drammatico meritava sommo rispetto
Le messinscene curate per il Théâtre Libre, tenevano conto anche delle didascalie e i possibili interventi da apportare al testo venivano sempre discussi con l’autore. Agli attori, il compito di farsi strumento col quale diffondere e vivificare il testo.
È quanto Antoine scriveva nel 1893, interrogato a tal proposito da Le Bargy, membro della Comédie Française:
Io vorrei – e queste riflessioni non hanno altro scopo – tentare di convincerla che gli attori non conoscono mai nulla delle pièces che devono recitare. Il loro mestiere è semplicemente di recitarle, di interpretare il meglio possibile dei personaggi la cui concezione sfugge loro; essi sono in realtà dei manichini, delle marionette più o meno perfezionate, a seconda del loro talento, che l’autore abbiglia e agita a suo piacere. […] L’ideale assoluto dell’attore deve essere di diventare una tastiera, uno strumento meravigliosamente accordato, che l’autore suonerà a suo gradimento.
È sufficiente che una educazione materiale abbia sciolto fisicamente il suo corpo, il suo volto, la sua voce e che una educazione intellettuale conveniente l’abbia messo in condizione di comprendere semplicemente ciò che l’autore lo incarica di esprimere. Se gli è chiesto di essere triste o allegro, egli deve, per essere un buon attore nel senso esatto del termine, esprimere al livello più alto la tristezza o l’allegria, senza valutare perché questi sentimenti gli sono chiesti. Questo, è affare dell’autore, che sa ciò che fa e resta il solo responsabile davanti allo spettatore.
Si noterà che questa strenua difesa del testo e della volontà dell’autore proveniva da colui che, organizzando i coefficienti dello spettacolo finiva, inevitabilmente, col creare un’interferenza tra la lezione drammaturgica e la propria interpretazione.
Quella che oggi si presenterebbe, dunque, come un’incoerenza teorica, va collocata in una cornice temporale che ne esplica la motivazione: siamo ai primordi della regia, quando il regista era una figura professionale indefinita che, ancora timidamente, cercava di dissociarsi da quella del direttore di teatro. Al regista la direzione del comparto artistico, al direttore di teatro mansioni burocratiche, amministrative e manageriali. Una biforcazione che rimarrà ideale almeno fino a quando i termini metteur en scène e régisseur non saranno più utilizzati in maniera indifferenziata. Ancora nei primi anni del 900’ infatti, il régisseur ricopre lo stesso ruolo di responsabilità cui è relegato il direttore di scena italiano, occupandosi della parte tecnico-materiale del palcoscenico.
Sarà proprio questa vigile incoscienza di Antoine a indurre una frangia della teatrologia europea a formulare la tesi della dimensione protoregistica alla quale è ascrivibile il suo intervento artistico. Pur non potendo figurare nella schiera dei registi “veri e propri”, in primis per ragioni d’ordine temporale, la dibattuta figura di Andrè Antoine resta oltremodo illuminante per lo studio della storia della regia teatrale, poiché in bilico tra la scoperta del fenomeno e l’affermazione di quest’ultimo.
La stagione teatrale 1893-1894 sarà l’ultima capeggiata da Antoine che di lì a poco rassegnerà le dimissioni da direttore del suo Théâtre Libre
Degli attori nascosti dietro il velario di tulle, gli spettatori videro solo le silhouettes. Figure che con pose minimali e una partitura gestuale di stampo corale, indirizzavano l’attenzione del pubblico verso l’allestimento scenografico curato dal pittore Nabis Paul Sérusier. Era il 19 marzo del 1891, il Théâtre d’Art, fondato quello stesso anno dall’attore e regista Paul Fort, ospitava la messinscena de La Fanciulla dalle mani mozze di Pierre Quillard, inaugurando il sodalizio tra il Simbolismo teatrale francese e gli artisti Nabis dell’avanguardia post-impressionista.
Il Théâtre d’Art ebbe vita breve, risentì dell’inesperienza del diciottenne Fort, della poca professionalità dei suoi attori e del folto numero di spettacoli che ogni sera venivano portati in scena, con conseguenti problemi organizzativi. Nel 1892 chiuse i battenti lasciando ad Aurélien Lugné-Poe campo libero nella riformulazione dell’insegnamento wagneriano – dal quale discendevano gli intenti artistici di Paul Fort e dell’intero movimento simbolista teatrale − che non solo concepisce il teatro come opera d’arte totale, rivelatrice dell’intima essenza umana, ma propone anche i criteri analogici come strumenti per l’evocazione di significati simbolici. Nel 1893 Lugné-Poe fondò il Théâtre de l’Oeuvre affiancato dal pittore Édouard Vuillard e dal poeta Camille Mauclaire.
L’esperienza protoregistica del direttore dell’Oeuvre è significativa perché si inserisce nel filone simbolista per l’uso di contrassegni musicali, figurativi e gestuali ma, al contempo, mantiene una direzione autonoma per via dell’impegno sociopolitico: Aurélien Lugné-Poe mise in scena l’innovativa struttura dei testi di Arthur Wing Pinero, le opere di Gerhart Hauptmann – autore del rivoluzionario Die Weber -, gli scritti di Emilio Praga, i drammi di Henrik Ibsen.
Édouard Vuillard, Programma per il Théâtre de l’Oeuvre: Ames solitaires di Gerhardt Hauptmann, 1893.
L’astrazione delle scenografie dipinte dai Nabis per il debutto di Pelléas et Melisande di Maeterlinck, creava un’atmosfera dai tratti onirici con derive coloristiche. Nel Théâtre de l’Oeuvre, come l’attore, anche il pittore doveva mettersi al servizio della lettera del testo. La recitazione era smaterializzata, lenta, irreale, gli arredi e i costumi poveri ed essenziali. Ogni coefficiente della messinscena era ideato per la riproduzione analogica dei significati del testo e per la rappresentazione dei contenuti spirituali universali.
Da Jarry a Mejechol’d
L’interesse per la pantomima clownesca di Gustave Kahn, indusse Lugné-Poe all’ideazione della messinscena simbolista dell’Ubu re di Alfred Jarry. Questo spettacolo, andato in scena nel 1896, fu un esperimento registico unico nel suo genere: spingendo sul carattere provocatorio della pièce, sovvertendo ogni convenzione spaziale, privilegiando argomenti dialogici di basso registro e prevedendo la presenza di manichini in scena, disorientò a tal punto il pubblico che molti lasciarono infuriati la platea dell’Oeuvre.
Sebbene l’esperienza di Paul Fort e di Aurélien Lugné-Poe possa sembrare marginale, l’operato di questi due giovani registi è intervenuto significativamente sulle sorti del teatro di regia: le loro intuizioni verranno raccolte e rielaborate, nell’ambito del teatro simbolista russo, da un giovane attore chiamato Vsevolod Mejerchol’d.
Ornella Rosato
Nasce a Napoli nel 1993. Con una tesi in Antropologia del Teatro, nel 2017 si è laureata alla Sapienza in Arti e Scienze dello Spettacolo. Ha lavorato come redattrice per Biblioteca Teatrale, rivista trimestrale di studi e ricerche sullo spettacolo edita da Bulzoni Editore. Ha effettuato uno stage presso SIAE – Società italiana degli Autori ed Editori prendendo parte al progetto di archiviazione dei materiali museali appartenenti alla Biblioteca Museo Teatrale SIAE.