Jablonovskij e Stanislavskij
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1650 iscritti / anno VII, n ° 39 / maggio/giugno 2008
Sergej JABLONOVSKIJ, un critico, e Stanislavskij al Primo Studio del Teatro d’Arte di Mosca (MChAT)
a cura di Fabio MOLLICA
“…Dio sia con voi, signori! lo non so quanto grande sia il vostro talento; non so quanto nelle vostre capacità venga da Dio e quanto dai vostri saggi maestri, ma so che lo spettacolo di ieri è stato uno spettacolo stupefacente e io spero con tutta 1’anima che il vostro fuoco in futuro arda chiaramente, gioiosamente, splendidamente…”
Sono alcune delle parole del critico Sergej Jablonovskij: aveva appena assistito allo spettacolo “Festino di pace” di Hauptmann per la regia di Vachtangov.
Il Teatro d’Arte di Mosca (MChAT) è un teatro creato a Mosca nel 1897 da Konstantin Stanislavskij e da Vladimir Nemirovič-Dančenko. Vachtangov, nel 1912, fu tra i fondatori del Primo Studio del Teatro d’Arte ed il suo esordio registico avviene appunto con “Festino di pace” di Hauptmann.
Ringraziamo Fabio Mollica per il permesso alla pubblicazione.
Buona Lettura
Sergej JABLONOVSKIJ, un critico, e Stanislavskij al Primo Studio del Teatro d’Arte di Mosca (MChAT)
“L’11° settembre del 1912 Stanislavskij riunì nei locali di via Tverskaja i giovani che avevano risposto al suo appello. Vi erano allievi totalmente inesperti….,e attori che avevano già interpretato parti di un certo peso…; vi erano attori cresciuti nella cultura del Teatro d’arte…e attori che provenivano da una diversa formazione teatrale, come Cechov. Erano diversi per estrazione sociale, cultura e luogo di provenienza. Sin dal suo nascere lo Studio si presentò come un luogo di confluenza di aspirazioni, volontà di lavoro e ricerca; casa protetta e riparata all’ombra del Teatro, ma tutt’altro che chiusa all’incontro con chi volesse scoprirla. Lo Studio è quella piccola sala dove Stanislavskij prova e riprova a lavorare col suo sistema; è quel luogo tranquillo dove può impegnarsi con singoli o gruppi d’attori alla realizzazione di spettacoli del MChT. Lo Studio è il laboratorio dove Suler elabora il suo «poema pedagogico», e i giovani attori rielaborano tutta l’esperienza maturata giorno dopo giorno con la partecipazione alla vita del Teatro d’arte. Lo Studio è un luogo insolito nelle sue caratteristiche architettoniche perché rigetta la struttura “italiana” per esaltare la presenza corporea dell’attore, fisicamente vicino allo spettatore, con il conseguente stravolgimento delle modalità percettive da parte di quest’ultimo, e dei modi espressivi da parte dell’attore – esperienza nuova per il mondo teatrale del tempo. Lo Studio è anche un’idea e uno stato d’animo. E’ una promessa d’impegno, lanciata a se stessi e ai compagni; è un mutuo codice etico che si vuole fondare sul rispetto, sulla collaborazione, sullo scambio d’esperienze; è la salutare sensazione di essere vivi, partecipi e necessari.
Luogo fisico e mentale, lo Studio è il centro della vita di chi lo anima, ma diviene presto nucleo magnetico dei più diversi interessi, calamitando nel fermento del suo spazio le più diverse esigenze di uomini di teatro, creando sempre nuove occasioni di maturazione d’esperienza…”
Quelle che seguono sono le parole del critico Sergej Jablonovskij che aveva appena assistito allo spettacolo “Festino di pace” di Hauptmann per la regia di Vachtangov.
« Un edificio banale di fronte al monumento a Skobelev, all’ingresso un’insegna di sarto e, accanto, una piccola tavoletta con la scritta: ‘Studio’.
Davanti al portone non ci sono né carrozze né folla; questo perché la sala contiene centosessanta posti. Non una sala, ma una grande camera adattata ad anfiteatro, e senza alcun palcoscenico o alcuna linea che separi il palcoscenico dal pubblico. Quando il semplice sipario di tela grossa si apre noi e gli interpreti ci troviamo in una stessa camera. Se l’attore farà un passo in più sarà accanto a me, se lo farò io, sarò accanto a lui.
E non vi è quasi scenografia.
Tre muri e il soffitto, di tela grossa, in alcun modo dipinta. Due porte, una finestra, una stufa in ferro, un divano, un tavolo e alcune sedie. Un lampadario. Sopra le porte e la finestra vi sono delle corna di cervo. Questo è tutto, vi è soltanto lo stretto necessario. Recitano i giovani del Teatro d’arte. E il primo spettacolo dello ‘Studio’ al quale partecipa un pubblico pagante.
‘E forse questo un nuovo teatro che darà spettacoli regolari?’ chiedo a Konstantin Sergeevic Stanislavskij.
‘No, è un saggio. Cercano, studiano, e mostrano ciò che loro riesce.’
Si apre il sipario.
Non capisco, forse questa non è arte.
Eppure dicono che l’arte deve essere piacevole e appassionare delicatamente. L’arte è estetica, raffinatezza; l’arte è sempre un po’ ‘gioco’, effetto, posa, improbità.
Ma qui…
Presentano una pièce triste di Hauptmann, Festino di pace. Una pièce che ha ben poco di tedesco, perché il tedesco è metodico, equilibrato, garbato, e qui siamo noi, slavi, e l’inferno. Nella famiglia sono tutte persone ammodo, e tutti si amano vicendevolmente, e ogni secondo si tormentano l’un l’altro, si insultano, si deridono, si lacerano i nervi. Incubo, spasimo, isteria, teatro anatomico.
Può darsi che questa pièce non sia arte: forse che l’arte sia una mazzata sulla testa? Forse tortura? Qui è un vero tormento. Ma se non è arte, in che modo l’autore si insinua nel mio e nel vostro spirito, e nello spirito del signore che siede alla vostra destra, e nello spirito di quello che siede alla vostra sinistra?
Eppure tutto questo ci ha preso, eppure tutto questo ci ha sfibrati, alterati, oppressi (martiri e carnefici ad un tempo).
I giovani del Teatro d’arte hanno preso questa pièce e vi hanno disteso sopra il loro spirito.
Non so se la passeranno liscia. So che far questo non è possibile: è più lo scapito che il guadagno.
Ripeto: non so se questa è arte, ma so che da molti, molti anni non si percepiva…in teatro niente di simile a quello che abbiamo vissuto ieri allo ‘Studio’.
Quindici anni fa fu realizzato da dilettanti uno spettacolo che colpì Mosca per la freschezza, il carattere insolito. Nasceva il Teatro d’arte. Ieri, in uno spazio minuscolo, giovani allievi e apprendisti hanno tenuto il pubblico per tre atti in una tensione che ottimi attori maturi possono tenere solo per istanti. Nel corso della sera nessuno ha tossito, nessuno si è mosso.
Vladimir Ivanovic [Nemirovic-Dancenko], voi diceste che affinché l’attore possa apparire in tutta la sua forza vi era necessario Dostoevskij. Voi faceste straordinariamente molto, ma malgrado l’aiuto dei vostri ottimi attori e dei molteplici mezzi d’azione scenica, fu realizzato uno spettacolo cupo, scialbo e persino noioso. La vostra scena perfetta non rese un centesimo delle sensazioni che Dostoevskij produce alla lettura. Ma qui i giovani hanno preso una pièce di Hauptmann cupa e, forse, noiosa e hanno fatto una tale opera dostoevskiana, ai limiti del trauma, che si sarebbe voluto gridare, lamentarsi, ma nello stesso tempo sentivamo che talvolta è necessario aprire le nostre piaghe, penetrare nei cantucci dei nostri animi insanguinati e purulenti.
E arte?
Eppure tutto questo è stato raggiunto senza gridare, o sbracciarsi, o strabuzzare gli occhi; è stato raggiunto con un tono straordinariamente semplice, come neanche al Teatro d’arte è stato realizzato, tale da essere estremamente più faticoso di una piacevole animazione.
Parlano piano, prosaicamente, ma sotto questa calma si ‘agita il caos’.
Dio sia con voi, signori! lo non so quanto grande sia il vostro talento; non so quanto nelle vostre capacità venga da Dio e quanto dai vostri saggi maestri, ma so che lo spettacolo di ieri è stato uno spettacolo stupefacente e io spero con tutta 1’anima che il vostro fuoco in futuro arda chiaramente, gioiosamente, splendidamente…»
Il brano è tratto da: “Il Teatro Possibile, Stanislavskij e il Primo studio del Teatro d’arte di Mosca” – Ed La Casa Usher, a cura di Fabio Mollica