Il Laboratorio di GROTOWSKI

Il laboratorio di GROTOWSKI è caratterizzato da un silenzio assoluto, un’atmosfera serena e calma in cui si svolge il training quotidiano


Il Quaderno di Nessuno – 1130 iscritti / anno III,  n ° 08 / gennaio 2004

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GROTOWSKI e il LaboratorioIl Laboratorio di GROTOWSKI: Akropolis, Principe Costante

di Gaetano Oliva

Jerzy Grotowski, uno dei protagonisti dell’universo teatrale contemporaneo: dagli inizi del Teatro Laboratorio ad Opole e Wroclaw in Polonia, agli spettacoli Akropolis e il Principe Costante, fino al trasferimento a Pontedera in Italia.

Ringraziamo il Prof. Gaetano Oliva per il permesso alla pubblicazione.

 


Il Laboratorio di GROTOWSKI: Akropolis, Principe Costante

Premessa

Nella prima metà del Novecento, Copeau, Stanislavskij e Vachtangov sostengono un’idea di rinnovamento del teatro a partire dalla valorizzazione dell’attore e del suo essere, prima di tutto, un uomo. L’amore profondo per l’arte a cui consacrare tutto il proprio tempo; l’intimo legame maestro-allievo, regolato da stima e fiducia reciproche; l’inclinazione al sacrificio, necessaria per difendere la vocazione teatrale; il prepotente interesse per la formazione dell’attore sostenuta da una rigida disciplina; l’instancabile training fisico e spirituale…, ottenuto con gli esercizi quotidiani, costituiscono gli aspetti salienti dei Laboratori, scuole-comunità in cui il maestro provvede a stabilire le condizioni ideali per educare l’uomo e per trasmettergli principi etici, oltre che tecnici, indispensabili alla creazione teatrale.

Al pari di Copeau, Stanislavskij e Vachtangov,

in Europa e pressoché contemporanei a loro, operano altri uomini di teatro la cui ricerca si muove nella medesima direzione.  Sarà a questi “maestri” del primo Novecento che si ispireranno molti registi nella seconda metà del secolo.  Tra di essi emergono i nomi di Jerzy Grotowski, Eugenio Barba e Peter Brook.

Il Teatro-Laboratorio fondato da Grotowski ad Opole, il Laboratorio dell’Odin Teatret costituito da Eugenio Barba ad Oslo, il Centro Internazionale di Ricerca Teatrale nato a Parigi su iniziativa di Peter Brook, devono molto, infatti, a Copeau, Stanislavskij, Vachtangov e alla loro pedagogia teatrale….

Un attore non può riuscire ad entrare in rapporto con gli altri (i compagni di lavoro prima, gli spettatori dopo) se non lavora a fondo su se stesso e sul proprio corpo. Imparare a conoscersi, rispettarsi, modificarsi, avere fiducia di sé è altrettanto importante dell’agilità fisica, della scioltezza muscolare e della vivacità vocale, traguardi raggiunti grazie al training e alla vita di gruppo. Il Laboratorio, infatti, rappresenta il luogo per eccellenza dove condividere delle esperienze, dove poter sperimentare un confronto con gli altri in una crescita individuale e collettiva. Sugli allievi vigila il maestro che propone e segue, passo dopo passo, tutte le esercitazioni, pensate per stimolare le risorse di ogni componente del gruppo: dall’attenzione alla concentrazione, all’intuito, fino alle potenzialità più nascoste del corpo, strumento e tramite privilegiato per raggiungere il “contatto” con lo spettatore.


Il Laboratorio di GROTOWSKI

Jerzy Grotowski: Per un Teatro Povero

GROTOWSKI e il Laboratorioè il titolo del libro costituito da trecento pagine di interviste, testimonianze, resoconti di spettacoli nel quale Jerzy Grotowski racconta la sua idea di teatro; da tale libro sono tratte le seguenti affermazioni che esprimono sinteticamente un’intera concezione teatrale:

“Vi è qualcosa di incomparabilmente intimo e fruttuoso nel lavoro che svolgo con l’attore che mi è affidato. Egli deve essere attento, confidente e libero, poiché il nostro lavoro consiste nell’esplorazione delle sue possibilità estreme. La sua evoluzione è seguita con attenzione, stupore e desiderio di collaborazione: la mia evoluzione è proiettata in lui, o meglio, è scoperta in lui, e la nostra comune evoluzione diventa rivelazione […]. Un attore nasce di nuovo – non solo come attore ma come uomo – e con lui io rinasco. E’ un modo goffo di esprimerlo ma quello che si ottiene è l’accettazione totale di un essere umano da parte di un altro.”

L’insegnamento del regista polacco è basilare

per comprendere gran parte del teatro del secondo Novecento. Innanzitutto, nel suo pensiero, un attore che sta compiendo un percorso di formazione è fondamentalmente un uomo in crescita. Durante tale percorso il regista stesso si assume la responsabilità di seguire l’evoluzione dei suo allievi, di condurli ad un’esplorazione totale delle proprie capacità fisiche e psichiche e di accompagnarli lungo il percorso creativo.

Grotowski persegue la sua idea in un luogo da lui stesso fondato nel 1959,

nella cittadina di Opole, situata nella Polonia occidentale, che definisce un Teatro-Laboratorio. All’epoca in cui inizia le sue sperimentazioni egli ha solo ventisei anni ed è ancora sconosciuto, ma la fama delle sue ricerche si diffonde in breve tempo tanto che nel 1965 il Laboratorio si trasferisce nella città universitaria di Wroclaw, capitale culturale polacca dei territori orientali, e consegue lo status di “Istituto di ricerche sulla recitazione”.

Ciò che rende grande il nome di Grotowski sta nel fatto che egli ha proseguito nella ricerca iniziata all’inizio del secolo da Stanislawskij riguardante non solo le caratteristiche ed il significato della recitazione ma anche i processi fisici ed emotivi ad essa connessi. Secondo il regista polacco il solo modo per recuperare l’essenza del teatro consiste nel far emergere i due elementi che rendono possibile la comunicazione teatrale e cioè l’attore ed il pubblico e rinunciare a tutte le altre componenti. Egli definisce il suo teatro “un teatro povero”, in cui l’attore e lo spettatore si possono confrontare attraverso un percorso interiore indirizzato alla ricerca individuale di se stessi e di significati universali mediante il recupero di una dimensione rituale.


Il laboratorio di Grotowski.

GROTOWSKI e il Laboratorio

CIESLAK – Il Principe Costante


 

Il laboratorio di Grotowski è caratterizzato da un silenzio assoluto e da un’atmosfera serena e calma. Al suo interno si svolge il training quotidiano, durante il quale gli allievi provano i duri esercizi fisici ideati espressamente dal maestro con il fine di aiutare gli attori a liberare le capacità espressive; grazie ad essi gli allievi scoprono le possibilità del corpo, la sola cosa di cui, secondo il regista, il teatro non può fare a meno.

Camminare ritmicamente facendo ruotare le mani e le braccia, correre sulle punte dei piedi, camminare con le ginocchia piegate afferrandosi le caviglie o con le gambe tese e rigide come se fossero tirate da fili immaginari, sono solo alcune delle esercitazioni con cui gli allievi “si riscaldano”. Ne seguono altre per sciogliere i muscoli e snodare la colonna vertebrale.

In questa direzione l’esercizio più comune è “il gatto”.

Esso si basa sull’osservazione di un felino che si sveglia e si stira. L’attore è disteso bocconi in stato di rilassamento completo: le gambe sono aperte, le braccia ad angolo retto rispetto al corpo, le palme rivolte verso terra. Piano piano “il gatto” si desta. Avvicina le mani al petto, tenendo i gomiti in alto, e mentre accosta le gambe alle mani alza le anche. Si solleva e distende la gamba sinistra lateralmente. Ripete lo stesso movimento con la gamba destra. A questo punto allunga la schiena spostando il centro di gravità prima sulla colonna vertebrale e via via sempre più in alto fino alla nuca.  Infine si volta e ricade sulle spalle rilassandosi completamente.

L’allenamento procede con salti e capriole e tiro alla fune.

Gli attori immaginano di avere una corda tesa davanti ai loro occhi. Avanzano.  Non sono le braccia o le mani a tirare il corpo ma il tronco che si sposta verso le mani fino a quando la gamba che è indietro tocca il pavimento con il ginocchio. E’ questo uno dei tanti “esercizi di plastica” basato sul principio fondamentale dei cosiddetti “vettori contrari”.

Mediante tali esercizi, l’attore, vincendo gli ostacoli fisici, impara ad isolare le diverse parti del corpo e a dare loro vita propria, in modo che queste non reagiscano automaticamente ma siano in grado di produrre, ciascuno nello stesso tempo, movimenti autonomi e perfino contrari e comunicare immagini opposte ad esempio le mani raccolgono, le gambe espellono. Durante tali esercitazioni nella stanza nuda e silenziosa la concentrazione è al massimo.

Ad un tratto quasi per miracolo uno degli allievi “si trasforma” in un fiore:

<< l’intero corpo vive, trema, vibra dell’imperioso processo di fioritura […] i piedi sono le radici, il corpo è lo stelo e le mani formano la corolla >>. Il maestro li chiama “esercizi di composizione”, sorta di ideogrammi gestuali che scaturiscono da un gioco associativo tra un’immagine mentale, ad esempio quella del fiore, e il movimento fisico che la esprime. Diventare un fiore significa, dunque, riportare alla memoria l’immagine di un fiore, “colorarla” con la fantasia, costruire con il corpo i dettagli che la compongono (radici, stelo, corolla, petali, ecc.) fino a quando l’attore “si trasforma” egli stesso in un fiore.

Dopo questi esercizi il Laboratorio si anima di cinguettii di uccelli, rombi di motori, scroscii di acqua, prodotti dagli allievi che, così facendo potenziano le proprie risorse vocali. La modulazione di rumori meccanici e di suoni naturali eseguiti con incredibile varietà di ritmi e toni – alti, bassi, rapidi, lenti, semiscanditi, urlati – li aiuta, infatti, a dilatare la gamma sonora e a percepire gli impulsi profondi che provocano i suoni evocati.

Oltre agli esercizi vocali,

Grotowski impegna il suo gruppo a studiare l’articolazione della dizione differenziandola, di volta in volta, a seconda del tipo umano preso in esame; alcuni allievi fanno una parodia della dizione dei propri conoscenti; alcuni ritraggono, con la sola pronuncia, un avaro, un ghiottone; altri ancora, parlano accentuando delle particolarità psicosomatiche – mancanza di denti, malattie di cuore, nevrastenia. La frase viene “somatizzata”, messa in rapporto col ritmo del polso, del cuore, della circolazione e della respirazione. Quest’ultima, in particolare, è molto importante per ottenere la liberazione della voce e l’aumento della portata sonora. Secondo Grotowski la respirazione più completa e più funzionale ad accumulare una quantità d’aria sufficiente per recitare con ritmo e senza spreco di energia è quella pettorale- addominale.

Gli spettacoli.

Le messe in scena di Grotowski sono molto note; tra esse si possono ricordare “La tragica storia del dottor Faust” di Christpher Marlowe, “ Il principe Costante” di Pedro Calderon de La Barca, “Apocalypsis cum figuris” di Stanislaw Wyspianski. E fondamentale notare però che per il regista polacco il testo è semplicemente un pretesto per andare oltre: esso assume la funzione di un bisturi che << permette di aprirci, di trascendere il nostro io [… ] di scoprire ciò che è celato in noi e di andare verso gli altri >>; diventa una partitura che l’attore, mentre crea, ricompone con suoni, gesti e variazioni personali.

Proprio l’atto di recitare si trasforma in un’esperienza spirituale, una ricerca che consente e richiede un itinerario dell’attore alla scoperta di se stesso attraverso il training. Il ruolo del maestro consiste nell’osservare con pazienza i sui allievi, proporre loro gli esercizi, ma, soprattutto, aspettare che ciascuno sia pronto per eseguirli. Il teatro allora diventa per coloro che seguono Grotowski e per il regista stesso un incontro tra attori e spettatori e cioè tra uomini che cercano e si aprono con fiducia ad altri uomini.


Il Laboratorio di GROTOWSKI

Grotowski regista: Akropolis e il Principe Costante.

Akropolis, pubblicato nel 1904, è un testo di Stanislaw Wyspianski, drammaturgo, poeta e pittore simbolista. Di tutti gli spettacoli diretti da Grotowski, Akropolis è senz’altro quello che si distacca maggiormente dal suo prototipo letterario: l’unica cosa che rimane del testo dell’autore è lo stile poetico. Il dramma è stato trasferito in condizioni sceniche completamente diverse da quelle ideate dal poeta. Secondo il metodo del contrappunto, esso è stato arricchito di associazioni di idee da cui scaturisce, effetto collaterale, una specifica nozione del mestiere: si è dovuto trapiantare il tessuto verbale dell’opera nell’organismo di una messa in scena che gli risulta estranea sotto molti aspetti. Si è dovuto effettuare il trapianto in modo che il linguaggio sembrasse scaturire in modo naturale dalle circostanze imposte dal teatro.

L’azione del dramma si svolge nella Cattedrale di Cracovia.

Durante la notte della Resurrezione, i personaggi degli arazzi e delle sculture rivivono episodi dell’Antico Testamento e dell’antichità, radici primordiali della tradizione europea.  L’autore ha pensato la sua opera come visione panoramica della cultura mediterranea la cui trama caratteristica è simboleggiata dall’Acropoli polacca. In questa visione del “cimitero delle tribù”, come è stato definito dallo stesso Wyspianski, le concezioni del regista e quella del poeta si trovano a coincidere: entrambi intendono raffigurare la somma di una civiltà e verificarne i valori prendendo come termine di paragone il contenuto dell’esperienza contemporanea. “Contemporaneo” per Grotowski, indica la seconda metà del secolo Ventesimo.

La sua esperienza è quindi di gran lunga più crudele di quella di Wyspianski, e perciò egli sottopone i valori secolari della cultura europea ad una verifica severa. Il loro punto in cui confluiscono non è la serena e riposante atmosfera della cattedrale, dove il poeta fantasticava e meditava in solitudine sulla storia del mondo, ma il frastuono di un mondo di estremi, la confusione poliglotta in cui il nostro secolo ha proiettato quegli stessi valori: in un campo di sterminio.

I personaggi fanno rivivere i momenti culminanti della nostra storia culturale;

solo non tornano in vita dalle effigi immortalate nei monumenti del passato, ma dal fumo e dalle esalazioni di Auschwitz. Nella presentazione scenica, tutti i punti luminosi sono stati spenti ad arte: la visione finale della speranza è annientata dall’ironia blasfema. L’opera come viene rappresentata può essere intesa come un appello alla memoria etica dello spettatore, al suo subconscio morale.

La produzione di Il Principe Costante, basata su un adattamento di Juliusz Slowacki del testo di Calderòn de la Barca, ebbe un importanza notevole nell’evoluzione del teatro-laboratorio. Il regista non intende attenersi al testo originale di “Il Principe Costante”, ma dare una sua personale versione dell’opera; il rapporto fra la sua sceneggiatura ed il testo originale è perciò lo stesso che quello fra una variazione musicale ed il tema originale.

Nella scena d’apertura, il Primo Prigioniero collabora con i suoi persecutori. Dapprima, mentre giace su di un letto rituale, egli viene simbolicamente castrato e poi, dopo aver indossato un’uniforme, entra a far parte della compagnia. Questa rappresentazione costituisce uno studio sul fenomeno dell’inflessibilità che non consiste in una manifestazione di forza, di dignità e di coraggio.

Alla gente che lo circonda e che lo guarda come se fosse una bestia rara, il Secondo Prigioniero, il Principe, oppone solo resistenza passiva e gentilezza, tutto volto verso un più elevato ordine spirituale. Egli sembra non reagire alle azioni malvagie e brutali delle persone che lo circondano: non discute con loro; li ignora: rifiuta di diventare uno di loro. Sembra in tal modo che i suoi nemici lo tengano in pugno, in realtà non esercitano alcun potere su di lui: sebbene vittima delle loro male azioni, egli conserva intatta la sua indipendenza e purezza fino all’estasi.

La sistemazione del palcoscenico e del pubblico sta a metà fra l’arena e la sala operatoria:

per questo si può avere l’impressione di assistere, osservando l’azione che si svolge in basso, a qualche sport crudele in un’antica arena romana, oppure ad un’operazione chirurgica. All’inizio della rappresentazione il principe è vestito di un camice bianco e di un mantello rosso che a tratti può essere trasformato in un sudario.

Alla fine della rappresentazione egli è nudo, privo di qualsiasi difesa tranne la sua identità umana. I sentimenti della società verso il Principe non sono uniformemente ostili; sono piuttosto l’espressione di un sentimento di diversità ed alienazione unito ad una specie di attrazione, e questa combinazione contiene in sè la possibilità di reazioni estreme quali la violenza e l’adorazione. Tutti si contendono il martire ed alla fine della rappresentazione lottano gli uni contro gli altri per possederlo come se si trattasse di un oggetto prezioso.

Nel frattempo, l’eroe assiste a infinite dispute e viene sottomesso alla volontà dei suoi nemici.

Non appena l’azione è compiuta, la gente che ha tormentato a morte il Principe rimpiange il proprio operato e compiange il suo destino. Gli uccelli predatori si trasformano in tortore. Alla fine, nonostante le persecuzioni e le stupide umiliazioni cui era stato sottoposto, egli diventa un inno vivente in omaggio all’esistenza umana. L’estasi del Principe consiste nella sua sofferenza, cui egli può resistere solo offrendo se stesso alla verità, in un atto d’amore. Così, nonostante il paradosso, la rappresentazione vuole essere un tentativo di trascendere l’atteggiamento tragico, il che consiste nel rigettare tutte quelle componenti che possono indurre ad accettare l’aspetto tragico.

Grotowski ritiene che, sebbene non si sia attenuto fedelmente al testo di Calderòn, egli abbia conservato il significato profondo dell’opera. La rappresentazione è la trasposizione delle intime contrapposizioni e dei tratti più caratteristici dell’epoca barocca come il suo aspetto visionario, la sua musicalità, il suo apprezzamento degli aspetti concreti ed il suo spiritualismo. Questo spettacolo è anche una specie di esercizio che permette di verificare il metodo di recitazione di Grotowski. Tutto è fuso nell’attore: nel suo corpo, nella sua voce e nella sua anima.

Il Laboratorio di GROTOWSKI

Il lavoro di ricerca

Durante il lavoro nel laboratorio, il regista si accorge che, nonostante il training, i suoi attori non riescono a realizzare l’apertura verso il pubblico, da lui auspicata; per questo motivo egli decide di non creare più nessun altro spettacolo ed orienta la ricerca in una direzione diversa. Nel 1970 riorganizza la sua compagnia che risulta composta da giovani senza nessuna esperienza teatrale e finalizza la sua attività alla realizzazione di conferenze, seminari, stages, al di fuori del sistema produttivo spettacolare:

“Siamo arrivati alla conclusione […] che dobbiamo abolire il biglietto di ingresso e che coloro che vengono da noi dovrebbero pensare di recarsi in un luogo speciale dove è possibile lasciarsi alle spalle la propria vita quotidiana […], dove possiamo essere completamente noi  stessi. “

Due anni dopo cinquecento persone provenienti da ogni parte del mondo arrivano a Wroclaw per partecipare ad un incontro organizzato dal regista. Intanto la sua fama continua a crescere e, mentre numerosi gruppi teatrali si ispirano al suo insegnamento, nel 1984 per ordine del governo polacco il Laboratorio di Wroclaw viene sciolto. Il maestro si stabilisce a Pontedera e nella cittadina toscana prosegue tuttora la sua ricerca.

Tratto da: Gaetano Oliva, Il Laboratorio Teatrale, Milano, LED, 1999

http://www.crteducazione.it/public/materiali/teorici.rtf&nbsp;

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Nostra Nota: evidentemente l’articolo è stato scritto poco prima della morte del regista polacco nel 1999.

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