GROTOWSKI dieci principi Teatro Laboratorio

Grotowski dieci principi. Grotovski ha adoperato questo testo per gli attori in un periodo di prova nel suo Teatro Laboratorio

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1750 iscritti / anno IX,  n ° 49 / gennaio/febbraio 2010


Grotowski dieci principiGrotowski dieci principi del teatro laboratorio

da GROTOWSKI: “Per un Teatro Povero”

Affermazioni di Principi

Jerzy Grotovski ha scritto questo testo per adoperarlo all’interno del suo Teatro Laboratorio, e lo ha destinato in particolare a quegli attori che stanno attraversando un periodo di prova prima di venire accolti nella troupe allo scopo di render loro familiari i principi fondamentali che ispirano il lavoro.

Siamo lieti di poter presentare questo testo, tratto da “Per un teatro Povero” di J. Grotowski, e che amiamo leggere sempre insieme ai giovani aspiranti attori dei nostri laboratori.

Ringraziamo Bulzoni Editore per il permesso alla pubblicazione.

Buona Lettura



 Affermazioni di Principi

Grotowski: dieci principi del teatro laboratorio

da GROTOWSKI: “Per un Teatro Povero”

Il ritmo della vita nella civiltà moderna è caratterizzato dalla velocità, dalla tensione, da una sensazione di catastrofe; dal desiderio di nascondere le nostre motivazioni personali, assumendo una quantità di ruoli e di maschere esistenziali (differenti a seconda che ci si trovi in famiglia, al lavoro, fra amici o nella vita sociale ecc.). Amiamo essere “scientifici’, e propriamente razionali e cerebrali, poiché tale è l’atteggiamento imposto dall’andamento della civiltà.

Comunque, desideriamo pure pagare un giusto tributo alla nostra esistenza biologica, a quelli che possiamo definire piaceri fisiologici. Non accettiamo restrizioni in questo campo. perciò che facciamo un doppio gioco di intelletto ed istinto, pensiero ed emotività; tentiamo di dividerci artificialmente in corpo e anima. Quando tentiamo di liberarci da tutto questo ci mettiamo ad urlare e a scalpitare scuotendoci convulsamente al ritmo della musica. Nella nostra ricerca di liberazione raggiungiamo il caos biologico. Soffriamo soprattutto di una mancanza di totalità, che ci porta alla dispersione e alla dissipazione di noi stessi.

Il teatro

– grazie alla tecnica dell’attore, quest’arte in cui un organismo vivo lotta per motivi superiori – presenta una occasione di quel che potremmo definire l’integrazione, il rifiuto delle maschere, il palesamento della vera essenza: una totalità di reazioni fisico mentali. Questa possibilità deve essere utilizzata in maniera disciplinata, con una piena consapevolezza delle responsabilità che essa implica. È in questo che possiamo scorgere la funzione terapeutica del teatro per l’umanità nella civiltà attuale.

È vero che è l’attore a compiere questo atto, ma può farlo solo mediante un incontro con lo spettatore – in modo intimo, visibile, non nascondendosi dietro un ‘cameraman’, una costumista, uno scenografo o una truccatrice – stabilendo un confronto diretto con lui, e in qualche modo “sostituendosi” a lui. L’atto dell’attore  – questo rifiuto delle mezze misure, la penetrazione, l’apertura, l’uscir fuori da se stesso invece di chiudercisi – costituisce un invito rivolto allo spettatore. Tale atto potrebbe essere paragonato all’atto di un amore profondamente radicato e autentico fra due esseri umani –  questo è giusto un paragone, poiché possiamo parlare soltanto mediante analogia di questo “uscire da se stessi”. Questo atto paradossale ed estremo, noi lo definiamo un atto totale. Secondo noi esso riassume la vocazione più profonda dell’attore.

Perché spendiamo così tante energie per la nostra arte?

Non certo allo scopo di farci maestri degli altri, ma per imparare con loro che cosa debbano darci la nostra esistenza, il nostro organismo, la nostra esperienza personale e irripetibile; imparare ad infrangere le barriere che ci circoscrivono e a liberarci dalle fratture che ci ostacolano, dalle bugie su noi stessi che costruiamo ogni giorno per noi stessi e per gli altri; a rimuovere i limiti generati dalla nostra ignoranza e dalla nostra mancanza di coraggio; in breve, a riempire il nostro vuoto, a realizzare noi stessi.

L’arte non è né una condizione dell’anima (nel senso di un momento straordinario e imprevedibile di ispirazione) né una condizione dell’uomo (nel senso di una professione o di una funzione sociale). L’arte è una maturazione, una evoluzione, un elevamento che ci permette di emergere dall’oscurità in un bagliore di luce.

 Lottiamo quindi per scoprire, per sperimentare la verità su noi stessi;

per strappar via le maschere dietro le quali ci nascondiamo ogni giorno. Noi concepiamo il teatro –  soprattutto nel suo aspetto carnale e palpabile – come un luogo di provocazione, una sfida che l’attore lancia a se stesso e anche, indirettamente, agli altri.

Il teatro ha un significato solo se ci permette di trascendere la nostra visione stereotipata, i nostri livelli di giudizio –  non tanto per fare qualcosa fine a se stessa ma per verificare la realtà e, avendo rinunciato già a tutte le finzioni di ogni giorno, in uno stato totalmente inerme, svelare, donare, scoprire noi stessi. In questo modo – mediante lo choc e il tremore che ci causa la caduta della maschera e dell’affettazione abituali – noi siamo in grado, senza nascondere più nulla, di affidarci a qualcosa che non è possibile definire precisamente, ma in cui si trovano compresi Eros e Charitas.

L’arte non può essere regolata dalle leggi della comune moralità o da un qualsiasi catechismo.

L’attore, almeno in parte, è un creatore, un modello e una creazione racchiusi in un unico oggetto. Non deve essere sfrontato poiché ciò porta all’esibizionismo. Deve aver coraggio, non soltanto il coraggio di esibire se stesso – un coraggio passivo, potremmo dire, il coraggio dell’indifeso, ma anche il coraggio di penetrare se stesso. Né la penetrazione delle proprie zone pii intime, né un denudamentototale devono essere considerati un male nella misura in cui, nel processo di preparazione o nell’opera completa, danno vita ad un atto di creazione.

Se queste cose non si ottengono facilmente e se non sono segni di un’esplosione, ma di una padronanza, esse sono creative: ci denudano e ci purificano mentre trascendiamo noi stessi. Allora davvero contribuiscono al nostro miglioramento.

Per questi motivi,

ogni aspetto del lavoro di un attore che abbia un rapporto con argomenti intimi dovrebbe essere salvaguardato da osservazioni incidentali, indiscrezioni, indifferenza, commenti e scherzi vani. Il regno personale – sia spirituale che fisico – non deve essere ” impantanato” dalla banalità, dalle meschinità della vita e la mancanza di tatto che usiamo sia verso noi stessi che verso gli altri, almeno non nel posto di lavoro o in qualsiasi altro posto collegato ad esso. Questo postulato suona come un ordine morale astratto. Non lo è. Esso investe la più profonda essenza della vocazione dell’attore. Questo mestiere trova la sua realizzazione nella carnalità.

L’attore non deve illustrare ma compiere un “atto dell’anima” tramite il suo organismo. Si aprono così, davanti a lui, due alternative estreme: egli può vendere, disonorare, il suo essere concreto e “incarnato” facendo di sé un oggetto di prostituzione artistica: oppure può donare se stesso, santificando ii suo essere concreto e “incarnato”.

Un attore può essere guidato e ispirato soltanto da qualcuno che sia impegnato con tutta l’anima nella sua attività creativa. Il regista mentre guida e ispira l’attore deve al tempo stesso lasciarsi guidare e ispirare da quest’ultimo. Si tratta di libertà, di collaborazione e non presuppone una mancanza di disciplina, ma un rispetto per l’autonomia degli altri.

Il rispetto per l’autonomia dell’attore non significa anarchia,

indulgenza nelle richieste, discussioni interminabili, e sostituzione dell’azione con fiumi incessanti di parole. Il rispetto per l’autonomia, invece, implica vastissime richieste, l’aspettarsi il massimo sforzo creativo e la più personale penetrazione. Compreso questo, la sollecitudine per la libertà dell’attore può essere generata dalla pienezza della guida e non dalla sua carenza di pienezza. Una tale carenza presupporrebbe soperchieria, dittatura e ammaestramento superficiale.

L’atto di creazione

non ha niente a che vedere  con la comodità esterna o la cortesia umana convenzionale; cioè condizioni di lavoro in cui ognuno sia felice. Esso richiede il massino silenzio e la minima loquacità. In questo genere di creatività noi discutiamo tramite le proposte, le azioni e l’organismo vivo, non mediante spiegazioni.

Quando infine

scorgiamo noi stessi instradati in un cammino difficile e spesso anche vago, non abbiamo alcun diritto di smarrirlo con frivolezza ed incuria. Perciò, anche durante interruzioni dopo le quali riprenderemo il processo creativo, abbiamo il dovere di conservare alcune reticenze naturali nel nostro comportamento e anche nelle nostre faccende private. Questo vale tanto per il nostro lavoro quanto per il lavoro dei nostri compagni. Non dobbiamo interrompere e turbare il lavoro perché le nostre faccende private ci incalzano; non dobbiamo sbirciare, fare commenti o scherzi su questo, in privata sede. In ogni caso, idee private di divertimento non trovano posto nel mestiere dell’attore.

Nel nostro modo di affrontare i compiti creativi, anche se il tema è un gioco, dobbiamo essere in uno stato d’animo di disponibilità – si potrebbe persino dire di “solennità”. La nostra terminologia di lavoro che ci serve da stimolo non deve essere dissociata da esso e usata in un contesto privato. La terminologia di lavoro dovrebbe essere collegata solo a ciò che serve.

Un atto creativo di questo genere viene attuato all’interno di un gruppo,

e perciò entro certi limiti dobbiamo frenare il nostro egoismo creativo. L’attore non ha alcun diritto di plasmare i suoi compagni in modo da ampliare le possibilità della sua prestazione. E non ha, neppure, il diritto di correggere il suo compagno, a meno che non vi sia autorizzato dal direttore del lavoro. Gli elementi intimi e definitivi del lavoro degli altri sono intoccabili e non devono essere fatti oggetto di commento neppure in loro assenza. Conflitti privati, litigi, opinioni, animosità sono inevitabili in qualsiasi gruppo umano. È un nostro dovere verso la creazione dominarli nella misura in cui potrebbero deformare e far naufragare il processo operativo. Noi abbiamo il dovere di aprirci persino con un nemico.

È stato detto più volte – ma non lo metteremo in risalto e non lo spiegheremo mai abbastanza – che non dobbiamo mai utilizzare in sede privata qualsiasi cosa connessa con l’atto creativo: cioè la situazione, i costumi, gli accessori, qualche elemento preso dalla partitura recitativa, un tema o dei versi melodici del testo. Questa regola vale anche per i più minuti particolari e non possono essere operate delle eccezioni. Non abbiamo ideato questa regola soltanto per pagare un tributo ad una particolare devozione artistica. Non ci interessa la magniloquenza o le parole nobili, ma la nostra consapevolezza e esperienza ci insegnano che la mancanza di una rigida osservanza di certe regole priva la partitura dell’attore delle sue motivazioni e della sua “radiosità”  psichica.

Condizioni essenziali al lavoro di tutti gli attori sono l’ordine e l’armonia;

senza di esse non può esservi un atto creativo. Qui noi esigiamo consistenza. La richiediamo agli attori che si avvicinano al teatro con piena consapevolezza di sottoporre se stessi a una prova con qualcosa di estremo, una specie di sfida che attende una rispondenza totale da ognuno di noi. Essi vengono per verificare se stessi con qualcosa di definitivo che oltrepassa il significato di “teatro” ed è molto vicino ad un atto di vita, a un modo esistenziale. Questo schema probabilmente suona alquanto vago.

Se vogliamo spiegarlo in modo teorico,

potremmo dire che il teatro e la recitazione sono per noi una specie di strumento che ci permette di uscire da noi stessi, di realizzarci. Potremmo addentrarci molto in questo campo. Tuttavia, chiunque resti qui oltre il puro periodo di prova si rende perfettamente conto che quello di cui stiamo parlando può essere inteso meglio mediante i particolari, le necessità ed i rigori del lavoro in ogni suo elemento, che tramite parole magniloquenti.

L’individuo che disgreghi gli elementi fondamentali, che per esempio non rispetti la sua propria partitura recitativa e quella degli altri, annientando la struttura con la simulazione o la riproduzione automatica, è proprio quello che turba questi indefinibili motivi superiori della nostra attività comune. Particolari apparentemente irrilevanti formano lo sfondo contro cui si stagliano le questioni fondamentali; come per esempio il dovere di annotare gli elementi scoperti nel corso del lavoro.

 Non dobbiamo fidarci della nostra memoria

a meno che non sentiamo la spontaneità del lavoro minacciata; e anche in tal caso, dobbiamo prendere alcuni appunti. Questa è una regola tanto fondamentale quanto lo sono la rigida puntualità, la completa memorizzazione del testo, e cosí via, Qualsiasi forma di simulazione è del tutto inammissibile nel nostro lavoro. Capita talvolta, tuttavia, che un attore scorra rapidamente una scena limitandosi a tracciarne le grandi linee, alfine di verificarne l’ordine e le componenti dell’azione del suo compagno. Ma anche allora deve seguire le azioni attentamente, misurando se stesso in rapporto ad esse, allo scopo di penetrarne i motivi. È questa la differenza che corre fra una delineazione e una simulazione.

L’attore deve essere disposto sempre ad intraprendere l’atto creativo

nel momento esatto deciso dal gruppo. Da questo punto di vista, la sua salute, le sue condizioni fisiche, e tutte le sue faccende private cessano di essere soltanto affare suo personale. Un atto creativo di questo genere sboccia solo se alimentato da un organismo vivo. Abbiamo perciò il dovere di prendere cura giornalmente del nostro corpo in modo da essere sempre pronti per i nostri compiti. Non dobbiamo privarci del sonno per divertimenti di ordine privato per poi recarci al lavoro stanchi o con il mal di capo residuo di qualche sbornia. Non dobbiamo arrivare incapaci di concentrarci. La regola qui non è soltanto un atto obbligatorio di presenza sul posto di lavoro, ma la disponibilità fisica a creare.

La creatività,

soprattutto per quanto riguarda la recitazione, è sincerità senza limitibenché disciplinata: cioè articolata mediante segni. Il creatore da questo punto di vista non dovrebbe perciò incontrare limiti nel suo materiale. E poiché il materiale dell’attore è il suo corpo, dovrebbe essere allenato ad obbedire, ad essere duttile, a dare una rispondenza passiva ad impulsi psichici come se si annullasse nell’attimo della creazione  – ed è questo che intendiamo quando diciamo che non oppone alcuna resistenza. La spontaneità e la disciplina sono gli aspetti fondamentali del lavoro di un attore ed essi esigono una ricerca sistematica.

Prima che una persona decida dì fare qualcosa, deve elaborare un punto d’orientamento e poi agire in conformità e in modo coerente. Questo punto d’orientamento dovrebbe apparirgli del tutto chiaro, risultato di convinzioni naturali, osservazioni precedenti ed esperienze della sua vita. I postulati fondamentali di questo metodo costituiscono per la nostra troupe il punto d’orientamento. Il nostro istituto è organizzato in modo da poter analizzare gli effetti derivanti da questo punto d’orientamento. Perciò, chiunque venga e resti qui non può lamentare una mancanza di conoscenza del programma sistematico della troupe.

Chiunque venga e lavori qui,

e voglia poi mantenersi in una posizione di prudenza (per quel che riguarda la consapevolezza creativa) mostra uno sbagliato tipo di attenzione per la propria individualità. Il significato etimologico di “individualità” è ‘indivisibilità” il che indica un’esistenza completa in qualcosa: individualità rappresenta l’esatto contrario di disimpegno. Noi sosteniamo, perciò, che quelli che vengono qui per restare scoprono ne! nostro metodo qualcosa di profondamente congeniale, frutto della loro vita e della loro esperienza.

Noi supponiamo che dal momento in cui accetta coscientemente questo, ogni partecipante si senta in dovere di allenarsi in modo creativo e cerchi plasmare le proprie varianti senza prescindere dal proprio essere, accettando un orientamento aperto a rischi e ripensamenti. Poiché ciò che qui viene definito “il metodo” è esattamente l’opposto di qualsiasi tipo di ricetta.

II punto principale è che l’attore non tenti di acquisire alcun tipo di ricetta o di costruirsi un “arsenale di artifizi”.

Questo non è un luogo adatto per far collezione di ogni genere di mezzi espressivi. La forza di gravità del nostro lavoro spinge l’attore verso una maturazione interiore che si manifesta mediante una disponibilità ad infrangere le barriere, a ricercare un “vertice”, la totalità.

Il primo dovere dell’attore è di intuire che nessuno, qui, intende dargli qualcosa; al contrario, si progetta di prender molto da lui, di togliergli ciò a cui è abitualmente attaccato: la sua resistenza, la reticenza, la sua propensione a nascondersi dietro le maschere, il suo disimpegno, gli ostacoli che il suo corpo pone sui cammino dell’atto creativo, le sue abitudini e anche le sue solite “buone maniere.

Prima che un attore sia in grado di compiere un atto totale egli deve adempiere a un gran numero di esigenze, alcune delle quali sono così sottili, così intangibili da non potersi praticamente definire per mezzo delle parole. Esse diventano semplici mediante l’applicazione pratica.

È più facile tuttavia, precisare quali condizioni rendono irrealizzabile un atto totale e quali azioni dell’attore lo rendono impossibile.

Questo atto non può esistere se l’attore è più preoccupato dal fascino, dal successo personale, dagli applausi e dai guadagni che non dalla creazione come viene intesa nella sua forma più alta. Non può esistere se l’attore lo condiziona in rapporto alla lunghezza della sua parte, al suo posto nella rappresentazione, al giorno dello spettacolo al tipo di pubblico. Non può esservi alcun atto totale se l’attore, anche al di fuori del teatro, dissipa il suo impulso creativo e, come già detto, lo insudicia, lo blocca, soprattutto mediante impegni incidentali di natura dubbia o tramite l’uso premeditato dell’atto creativo come mezzo di ascesa nella sua carriera.

Da “Per un teatro povero” di Jerzy Grotowski, Bulzoni editore che ringraziamo per il permesso alla pubblicazione

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