Commedia Arte: professionisti e dilettanti
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2991 iscritti / anno XVIII, n ° 94 – 1/2019
Commedia dell’Arte: professionisti e dilettanti
Durante il tempo specificatamente dedicato alla festa, il carnevale, gli attori di professione si incontrano con un altro tipo di teatro, superficialmente assai simile al loro, ma diviso, invece, da una barriera insuperabile: il teatro dei dilettanti, fatto non per mestiere, e per guadagno, ma come piacere del carnevale. “Scorrendo la cronaca carnevalesca romana del Seicento…ci si rende conto che la commedia, specie quella con maschere e dialetti, è uno dei momenti più intensi del Carnevale. Viene rappresentata da attori non professionisti nelle accademie, nei collegi…nelle case degli ambasciatori e della nobiltà….Alla commedia non mancano di partecipare i cardinali e lo stesso papa
Il brano è tratto da: Il segreto della Commedia dell’Arte (Cap VI. La produzione di teatro pag 215, Nota 25 pag. 470) – Ferdinando Taviani, Mirella Schino – la casa Usher
Ringraziamo la Prof.ssa Schino per il permesso alla pubblicazione.
Commedia dell’Arte: professionisti e dilettanti
Durante il tempo specificatamente dedicato alla festa, il carnevale, gli attori di professione si incontrano con un altro tipo di teatro, superficialmente assai simile al loro, ma diviso, invece, da una barriera insuperabile: il teatro dei dilettanti, fatto non per mestiere, e per guadagno, ma come piacere del carnevale. “Scorrendo la cronaca carnevalesca romana del Seicento – scrive Luciano Mariti – ci si rende conto che la commedia, specie quella con maschere e dialetti, è uno dei momenti più intensi del Carnevale. Viene rappresentata da attori non professionisti nelle accademie, nei collegi (Capranica, Collegio Romano, Seminario Romano, ecc.), nelle case degli ambasciatori e della nobiltà (degli Altemps, dei Montalto, degli Aldobrandini, dei Peretti) o in qualche locale pubblico dove perfino comici spagnoli danno spettacolo a pagamento. Alla commedia non mancano di partecipare i cardinali e lo stesso papa. Le maschere che abitano la commedia sono le protagoniste della festa: oggetto di piacere per la nobiltà tanto che il cardinale Aldobrandini le offre perfino in degustazione all’ambasciatore di Francia come “statuette di zuccaro di gettito […] alte circa tre palmi” […] Nell’alternanza del calendario religioso e civile si susseguono cerimonie sacre e profane. Ogni settimana Roma è coinvolta almeno in una festa. Cortei, tornei, trionfi politici e religiosi, entrate regali, pompe di morte e quintane, corse di gobbi e di ebrei, rappresentazioni allegoriche su carri, processioni e “Teatri de’ Santi”, sfilate di maiali che sputano fuoco, fontane di vino, gozzoviglie offerte al popolo sotto gli sguardi divertiti delle nobildonne romane; e inoltre concerti e spari di artiglierie, musiche d’archi e luminarie […]
L’attività scenica si giustifica solo come momento di un avvenimento più vasto alle cui affinità ideologiche appare indissolubilmente legata; attività tanto più valida quanto più, attraverso il momento del delectare, sia capace di docere, di “persuadere”.
Ad una teatralità diffusa e disseminata non corrisponde, di fatto, un teatro che nella città cristiana abbia uno spazio stabile.
E se il teatro non è attività autonoma né un’arte che goda di un proprio statuto come le altre arti, lo stesso esercizio attorico non può definirsi né come professione né come arte. E’ solo esercizio saltuario connesso al tempo della Festa, indipendente dal tempo del lavoro; è “dilettantismo”, passatempo di gente che abita nella città e svolge altri lavori: barbieri e letterati, tessitori e medici, orefici e avvocati. Il dilettante partecipa organicamente al progetto culturale controriformistico; prende parte attivamente a tutte le cerimonie sacre e profane, alle frequenti feste che le corporazioni secondo una norma dei loro statuti sono obbligate ad allestire, e recita la tragedia e la commedia. Allora, qual è la collocazione della Commedia dell’Arte, quali novità introduce la Commedia “di mestiere”?
Nel contesto politico-culturale che abbiamo cercato di descrivere per linee generali e sommarie, la Commedia dell’Arte innesca delle rilevanti contraddizioni.
E’ intanto attività professionistica, è teatro dato quotidianamente, è industria, ma in proprio, del divertimento pubblico. E’ attività che tende a porsi come autonoma, economicamente e culturalmente, e che perciò non può pretendere una stabile collocazione nell’ordine culturale della città cristiana.
Se la ritualità, il continuum della Festa tende a totalizzare l’esperienza nel simbolo, è il tempo del sunballein, del riunire, dell’accordare, dell’esprimere emblematicamente la globalità di contenuti della cultura barocca e ciò che si definisce Spettacolo in senso lato prima che istituzione autonoma è categoria onnicomprensiva, forma estetica che trova il suo spazio e il suo tempo più naturali nella Festa; al contrario, l’attività professionistica del comico dell’Arte è piuttosto diaballein, separazione, disgregazione, frammento. Nel senso che non partecipa, perché attività autonoma in quanto professionistica, al progetto della Festa.
E’ frammento, “diabolo”, il teatro dei professionisti in confronto al teatro dei dilettanti, perché non si pone come Metafora della Festa, non ne riproduce, cioè, per contiguità né i contenuti né le condotte estetiche, né tiene conto delle sue finalità culturali. Nelle sue forme più eversive gli spettacoli dell’Arte si presentano come frammenti del mondo popolare carnevalesco, pericolosi proprio perché frammenti, non metafore capaci di riconfermarsi e convalidarsi in una superiore ufficiale unità simbolica; non modelli che riconfermano per contiguità altri modelli culturali, ma di volta in volta modelli a se stessi, cioè azioni, pratica dell’attore. E’, del resto, ciò che si rileva a livello teorico dalla nota proposta di sperimentalismo formulata da Flaminio Scala laddove si ritiene che solo il comico professionista possa dare la regola ai compositori di commedie e non già questi al comico: “E da questo avviene che molti gran litterati […] distendano comedie con bello stile, buoni concetti e graziosi discorsi e nobili invenzioni, ma queste poi messe su la scena restano fredde” perché mancano “dell’imitazione del proprio”, vale a dire di un’autonomia formale e culturale. E non è solo, tale proposta, la rivendicazione del valore dello scenario rispetto alla drammaturgia tradizionale o del teatro nei confronti della letteratura, ma è un programma pericoloso se, almeno teoricamente, ricerca un’autonomia del teatro in una nuova condizione dell’attore che, in quanto professionista, gode di un’operatività autonoma e può così progettare anche l’autonomia formale dello spettacolo. E, inoltre, la Commedia dell’Arte non è certo persuasione ad astra, retorica della salvezza, ma neanche semplice parentesi festiva, mero diletto, tempo del gioco. E’ piuttosto, nella visione dei teologi e dei direttori di coscienze, “immagine affascinante del Mondo (nell’accezione evangelica della parola) come sistema organizzato sul nulla, e quindi maleficio diabolico” (Taviani 1969), è immagine assolutizzata del Carnevale, del caos che distrugge l’ordine della vita interiore e della vita civile. Lo spettacolo dell’Arte non è solo buffoneria sprecona che si risolve nel nulla, nell’effimero scoppi di risa dilettando senza insegnare; ma è persuasione al nulla, ad un gioco fine a se stesso che non produce, come le arti codificate, beni intellettuali; un gioco inutile e per ciò dannoso.
Cosa vende infatti il comico professionista, cosa lascia al termine dello spettacolo? Come il saltimbanco, con i suoi trucchi ed escamotages, riesce a vendere lo stoppino perpetuo e gli occhiali che vedono al buio, così l’attore spaccia un prodotto falso inutile superfluo […]
In realtà uno spettacolo non dissimile da quello improvvisato dei comici dell’Arte era presentato anche dai dilettanti. Mi riferisco alla cosiddetta “commedia ridicolosa”, un tipo di teatro che nella prima metà del Seicento, soprattutto a Roma, venne praticato con grande successo di pubblico. Fenomeno (di cui la storiografia si è troppo poco interessata) rilevante anche da un punto di vista editoriale come dimostrano il numero delle edizioni e le alte tirature di queste commedie che autori come Giovanni Briccio, Virgilio Verucci, Francesco Righelli e moltissimi altri prima improvvisavano e poi davano alle stampe.
Non si tratta certamente dello spettacolo dell’Arte che gli “infami histrioni” rappresentavano nelle piazze e nelle taverne per un pubblico composto da “poveraglia e trista canagliaccia”. Ma non era certo dissimile dalla commedia delle più illustri compagnie dell’Arte dato che si valeva della stessa tecnica improvvisativa, delle stesse maschere, della stessa varietà di dialetti, lazzi, oscenità. (E, per lo meno nell’impostazione drammaturgica, tali commedie sono identiche a quelle pubblicate dai comici professionisti più colti.)
E’ comunque una commedia, come la definisce Francesco Maidalchini, “simile alle moderne e nello stile che oggidì si usa in Roma”, che si rivolge a un pubblico socialmente composito che non accetta “né sofesticarie né ragionamenti che vadino per le cime delli alberi […] perché son cose che oggi dì non gustano a tutti” “perché non tutti gli orecchi son tanto delicati come quelli che non possono lassar passare un verso se non è vestito di seta, se non ha la forma delle braghe del Petrarca”. Una commedia che tiene conto della tradizione (Ariosto, Parabosco, Ruzante, Calmo, Dolce, Piccolomini, Guarini, Tasso) ma la cui poetica esplicitamente ammette di apprezzare e tener presente la Commedia dell’Arte: Pier Maria Cecchini e “altri tanti sogetti in penna di diverse Academie e compagnie come di Gelosi”.
E’ un’attività, limitata naturalmente al tempo della Festa (al Carnevale e ad altre feste popolari), che impegna le numerose accademie romane (dagli Umoristi agli Infiammati, ai Disuniti, ai Disiosi, agli Imbiancatori, agli Intrigati) e artisti famosi come Salvator Rosa e Bernini o governatori come Virgilio Verucci che per questo non nobile esercizio verrà apertamente rimproverato: “che a no Dottore non conviene fare le comedie e che però non è bene dare le cariche di Governatore”. Ma recitano commedie ridicolose anche barbieri, bicchierai, “vermicellari”, cappellai, orefici, giovani collegiali, e soldati, tessitori, medici, avvocati, notai, stampatori, ognuno, a seconda delle proprie capacità o anche della particolare conoscenza di un dialetto, specializzato nell’interpretazione di una maschera, come ricorda Giovanni Briccio in un manoscritto in cui elenca ben cento attori dilettanti che hanno recitato con lui più di una volta. Così il giovinetto Capograno, studente al collegio Capranica, dotato di “voce donnesca e gesti vezzosi, per essere bellissimo faceva parti di Ninfa”; un certo Paradisi Pietro, che sarà poi canonico a Civita Castellana, interpretava la parte di Capitano per aver “voce, guisa, presenza e gesti adatti alla parte”; e Vincenzo Strozzini, vermicellaro, faceva parti di fantesca “quale per esser nano e gobbo appariva in scena molto ridicolo”; e N.Bastiano, “stufarolo” e barbiere, era specializzato nelle parti cosiddette “ridicole” per essere “inclinato a cantar in rima all’improvviso”.
Il dilettante, con il suo spettacolo di maschere, entra quindi in aperta concorrenza col professionista; anzi la sua figura si propone come la più adatta a sanzionare la negatività del modello d’attore propugnato dal comico “mercenario”.
Il dilettante è, intanto, un onesto cittadino che vive della propria onesta professione e opera in quelle accademie in cui è organizzata e controllata l’attività culturale. La figura sociale e il comportamento del dilettante si contrappongono alla sregolata vita del professionista. La regolata e produttiva comunità dell’accademia contrasta notevolmente con la libera, improduttiva, inutile comunità dei comici dell’Arte che, segnata da promiscuità di uomini e donne, da adulteri, prostituzione e ruffianeria, è anche scandalizzante disgregazione dell’omogeneità del nucleo familiare. La vita dell’accademico, sintonia di moralità e dignità culturale, è invece tutta compresa nell’ordine del vivere civile della ordinata società cristiana. E il dilettante, sebbene vesta i panni della maschera per pochi giorni all’anno, si qualifica anche come autore, appartiene ad una categoria sociale, quella dei letterati, ritenuta nobile in quanto esercita una nobile attività; ha dietro di sé un’arte cui far riferimento.” (L. Mariti, Dilettanti e professionisti, in Alle origini del teatro moderno, La Commedia dell’Arte, atti del convegno di studi di Pontedera, maggio 1976, Roma, Bulzoni, 1980, pp. 63-75).
Sui rapporti tra attori dilettanti e professionisti un contributo basilare è Mariti 1978, che pubblica testi di Commedie Ridicolose. Il libro di Mariti si offre a numerose riflessioni.
La Commedia Ridicolosa, questo episodio dimenticato della storia del teatro, possedeva un fascino particolare, una capacità di attrarre di cui troviamo la prima traccia nella tranquilla e per noi impudente sicurezza con cui afferma la sua indiscussa superiorità sul teatro dei professionisti (sostiene infatti il dilettante Basilio Locatelli “Il Comico essere l’Accademico virtuoso, le representationi et comedie del quale si possono ascoltare et permettere et non quelle dell’Histrione Infame”).
Il fascino degli spettacoli non professionisti non dipende né dalla forza né dalla bellezza del genere, ma è di quel tipo che nasce da un armonioso inserimento nella realtà circostante, da un generale riconoscimento ottenuto senza lacerazione. Niente, nel modo di far teatro dei dilettanti, indica l’esistenza di uno sforzo o di una tensione. I loro spettacoli nascono da un solo terreno e respirano una sola atmosfera: quella della festa. Neppure comporli deve sembrare una fatica: ognuno di questi autori si affretta infatti a dichiarare quanto per lui sia stato un semplice divertimento e un’impresa da poco scrivere una di queste commedie, che del resto sono tutte formate più o meno dagli stessi pezzi (con conseguenti innumerevoli accuse di furti reciproci). E poiché l’abilità dell’autore sta nel saper presentare con grazia una qualche ingegnosa variante, mentre il piacere del pubblico viene dalla sua capacità di notarle e di apprezzarle, perfino il rapporto con gli spettatori assume l’aspetto di una complicità festosa, consolidata dal fatto che gli attori hanno tutti una posizione sociale sicura e riconosciuta. Paragoniamo invece a questo il teatro dei professionisti, e non potremo fare a meno di notare come, per quanto sia questo il teatro veramente importante del periodo, la sua vita sia faticosa e lo porti assai lontano da questo particolare tipo di perfezione. Dal momento che sono legati ad una professione poco onorata, e non possono, una volta finito lo spettacolo, dimenticare di appartenere al teatro, i professionisti devono lottare per affermare in qualche modo la dignità delle loro esistenze. Contrastando e lacerando l’ordine esistente devono affannarsi a pubblicare scritti in cui esaltano le illustri virtù dei grandi attori. Del resto recitare per loro non è un gioco ma un lavoro, per vedere i loro spettacoli è necessario pagare, non sono un lucente frutto di un periodo di festa ma si inseriscono, creando scompiglio e confusione, in ritmi di vita più quotidiani.
Con la grazia e l’armonia delle cose perfettamente inserite nel tempo e nel luogo opportuni, il teatro dei dilettanti invece si colloca nel momento più giusto per i giochi: il carnevale. Forti della sicurezza che può dare una rispettata posizione sociale essi possono permettersi di recitare, perché si tratta per loro di un gioco privo di conseguenze, a cui contribuisce perfino il leggero scandalo nato dalla riprovazione dei più dignitosi tra gli accademici.
Le cause stesse della superficialità del teatro dei dilettanti sono anche motivo di un ritmo tanto festoso e spensierato. Gli autori delle Commedie Ridicolose, infatti, dall’alto della loro indiscussa superiorità di gente non mercenaria, giocano con tutti gli strumenti del teatro professionista, scegliendo con spreco noncurante solo gli aspetti più scintillanti e appariscenti, i più inconsistenti ma anche i più utili per un gioco. Usano così, tra le maschere, le più facilmente individuabili, riducendole a stereotipi, e col tipico compiacimento di uomini che ben conoscono quali siano le lingue veramente nobili, riducono l’uso del dialetto ad un semplice espediente comico.
“Bisogna credere che gli istrioni, dopo che furono ammessi negli ambienti colti, ed ebbero assaporata la letteratura, si siano avidamente impadroniti di tutto quello che parve loro suscettibile ad arricchire la loro professione? – si domanda Mic, occupandosi dei contatti tra professionisti e dilettanti – O sono stati gli accademici dilettanti ad imitare gli istrioni e il loro stile popolare, arrivando perfino, talvolta, a diventare professionisti, imprimendo così una nuova direzione all’arte teatrale popolare? In ogni caso si può supporre che i dilettanti ebbero un certo peso nell’evoluzione del teatro dell’Arte: i comici professionisti formavano una corporazione, e questo tipo di organizzazione è in genere ostile ad ogni spirito innovativo; la modificazione della Commedia dell’Arte verso forme più letterarie deve essere stata, perciò, progressiva, frutto di un lungo sforzo collettivo. Se l’evoluzione in senso più colto fosse stata opera di un qualche ardito genio, il suo nome ci sarebbe stato tramandato. Bisogna credere che il dilettantismo dell’epoca del Rinascimento (assai superiore al nostro) dovesse necessariamente esercitare una certa influenza sull’arte con cui era entrato in contatto; e sappiamo, d’altra parte, da numerose testimonianze, che i dilettanti dettero spesso rappresentazione di commedie improvvisate” (Mic, 1927, p. 224-225)