Peter BROOK: Insieme a GROTOWSKI
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Peter BROOK: Insieme a GROTOWSKI
2011 rueBallu edizioni Palermo
Siamo lieti di presentare il primo capitolo del volume “Insieme a GROTOWSKI” di Peter BROOK.
Grotowski è unico. Perché? Perché nessun altro al mondo, nessuno dopo Stanislavskij, di mia conoscenza, ha esplorato la natura della recitazione, il fenomeno che la costituisce, il suo signicato, la scienza dei suoi processi, sia psichici che fisici o emozionali, così profondamente e pienamente come Grotowski.
Dal primo incontro avvenuto negli anni sessanta, fino alla scomparsa di Jerzy Grotowski (1933-1999), Peter Brook ha colto l’importanza di quest’uomo straordinario valorizzandone le scelte radicali.
In questo libro – il libro dell’amicizia – grazie ai testi, alle conferenze, alle testimonianze, seguiamo il percorso del regista polacco, alla ricerca di una forma perfetta, dell’arte come veicolo.
Ma il regista inglese sottolinea anche la sua diversità, il suo bisogno del pubblico e dell’impurità elisabettiana. Egli non commenta, dialoga con Grotowski. Per tutta la vita .
Ringraziamo rueBallu edizioni per il permesso alla pubblicazione.
Buona Lettura
BROOK: Insieme a GROTOWSKI
2011 rueBallu edizioni Palermo
Capitolo I
Grotowski è unico. Perché? Perché nessun altro al mondo, nessuno dopo Stanislavskij, di mia conoscenza, ha esplorato la natura della recitazione, il fenomeno che la costituisce, il suo significato, la scienza dei suoi processi, sia psichici che fisici o emozionali, così profondamente e pienamente come Grotowski.
Grotowski chiama il suo teatro un laboratorio. Ed è così. È un centro di ricerca. È forse il solo teatro d’avanguardia, in cui la povertà non è un inconveniente, dove la mancanza di denaro non rappresenta una scusa per giustificare l’impiego di mezzi inadeguati che, di sicuro, rovinano le esperienze. Nel teatro di Grotowski, come in ogni vero laboratorio, le esperienze sono scientificamente valide, perché le condizioni essenziali sono rispettate. Nel suo teatro si concentra un piccolo gruppo di persone per un tempo illimitato. Se le sue scoperte vi interessano, è necessario andiate in una piccola città della Polonia. Oppure, fate come noi. Fate venire Grotowski a Londra.
Per due settimane ha lavorato con il nostro gruppo. Non descriverò il lavoro compiuto. Perché? Prima di tutto perché un lavoro di questo tipo è libero soltanto quando si realizza nella fiducia e la fiducia ha bisogno di discrezione. In secondo luogo, questo lavoro è essenzialmente non verbale. Verbalizzare è complicare, anzi, saccheggiare degli esercizi che sono chiari e semplici, quando sono rivelati da un gesto ed eseguiti da un corpo e da una mente che sono un tutt’uno.
Cosa ha portato questo lavoro? Ad ogni attore, una serie di shock. Lo shock di doversi confrontare con delle sfide semplici e irrefutabili. Lo shock di scorgere le proprie false scorciatoie, i propri trucchi, i propri cliché. Lo shock di sentire l’immensità delle proprie risorse inesplorate. Lo shock di essere obbligati a chiedersi perché si è attori. Lo shock di essere obbligati a riconoscere che tali domande ci sono e nonostante la vecchia tradizione inglese voglia che le si eviti — non bisogna essere mai seri — di accorgersi che è tempo di guardarle in faccia. Lo shock di scoprire che, in qualche parte del mondo, recitare è un’arte alla quale ci si consacra totalmente, in modo monastico e assoluto. Che l’espressione di Artaud, oggi svilita, «crudele nei confronti di me stesso», da qualche parte, per un ristretto numero di persone, costituisce un autentico modo di vivere. A una condizione. Questa consacrazione alla recitazione non fa della recitazione un fine in se stesso. Piuttosto è il contrario. Per Jerzy Grotowski, recitare è un mezzo. Come spiegarlo? Il teatro non è una scappatoia, un rifugio. È un modo di vivere, è un cammino verso la vita. Potrebbe sembrare uno slogan religioso? Dovrebbe essere questo. Ed è più o meno tutto quello che c’è da dire. Né più, né meno. Risultati? È poco probabile. I nostri attori sono i migliori? Sono degli uomini migliori? Non perché recitano, per quanto ne possa aver visto e, d’altra parte, nessun altro l’ha mai sostenuto. Inoltre, evidentemente, non tutti sono stati molto felici della loro esperienza. Alcuni si sono soltanto annoiati. Ci sono dei parallelismi e dei punti di contatto tra il lavoro di Grotowski e il nostro. Questo, unito alla simpatia e al rispetto, ci ha fatto incontrare. Tuttavia la vita del nostro teatro differisce totalmente dalla sua. Lui si occupa di un laboratorio. Non ha bisogno che occasionalmente di spettatori e in piccolo numero. Si potrebbe dire che Grotowski sia di cultura cattolica e al tempo stesso anticattolico: in questo caso i due estremi si congiungono. Ha dato vita a una sorta di servizio, di culto. Noi lavoriamo in un altro paese, con un’altra lingua e un’altra cultura. Non abbiamo come obiettivo quello di celebrare una nuova messa, ma l’elaborazione di una nuova relazione, di tipo elisabettiano, che stabilisca un legame tra il privato e il pubblico, l’intimo e l’affollato, il segreto e il manifesto, il quotidiano e il magico. Per questo abbiamo bisogno di tanta gente in scena e tanta gente in teatro e, in mezzo a questa folla sulla scena, abbiamo bisogno di persone che sappiano offrire le loro verità più intime a ogni singola persona di cui il pubblico è composto e che condividono un’esperienza collettiva.
Siamo già a uno stadio avanzato circa la messa a punto di uno schema d’insieme, con l’idea di un gruppo, di un insieme appunto. Ma il nostro lavoro rimane troppo frettoloso, troppo sommario per riuscire a valorizzare l’insieme delle persone di cui il gruppo è formato. In teoria, sappiamo che ogni attore deve rimettere quotidianamente in questione la sua arte — come i pianisti, i danzatori o i pittori — e che, se non lo fa, quasi a colpo sicuro rimarrà incastrato, si nasconderà dietro i suoi cliché, entrando alla fine nel declino. Lo ammettiamo, ma sappiamo così poco sul modo di rimediarvi che siamo senza sosta alla ricerca di nuova linfa, di vitalità giovanile. Tralasciando i più dotati, le eccezioni — per loro si presentano sicuramente le migliori opportunità — e che, nel lavoro, catturano la parte più grande della nostra attenzione. Il lavoro di Grotowski ci ha ricordato che, quanto riesce quasi miracolosamente con un ristretto numero di attori, è ugualmente necessario a ciascuna persona che fa parte delle due nostre enormi compagnie della Royal Shakespeare Company, che provano a lavorare contemporaneamente in due teatri a centocinquanta chilometri l’uno dall’altro.
L’intensità, l’onestà e il rigore del suo lavoro possono lasciarci soltanto una cosa: una sfida. Ma non per quindici giorni, non soltanto per una volta. Per ogni giorno della nostra vita.