Peter BROOK Conferenza degli Uccelli

 Peter Brook Conferenza degli Uccelli, il CIRT (Centro Internazionale di Ricerca Teatrale), l’Attore Narratore

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1150 iscritti / anno III,  n ° 10 / marzo 2004


Peter Brook Conferenza degli UccelliPeter Brook Conferenza degli Uccelli, il CIRT, l’Attore Narratore

di Gaetano Oliva

La presente è dedicata a Peter Brook: dagli esordi con il Doctor Faust di Christopher Marlowe, alle esperienze africane, a La Conferenza degli uccelli, ispirata dall’antico poema persiano di Farid Ad-Din Attar.

Si tratta della Terza (ed ultima) parte dell’articolo del Prof. Gaetano Oliva su tre dei protagonisti dell’universo teatrale contemporaneo: Jerzy Grotowski, Eugenio Barba e Peter Brook

I brani riferiti a Jerzy Grotowski sono stati presentati nel numero di gennaio, quelli riferiti ad Eugenio Barba in quello di Febbraio.

Per una migliore comprensione della presente consigliamo di leggere anche i precedenti numeri.

https://www.teatrodinessuno.it/doc/grotowski-laboratorio/  

https://www.teatrodinessuno.it/doc/barba-odin/  

Ringraziamo il Prof. Gaetano Oliva per il permesso accordatoci di utilizzare il Suo scritto.

Buona Lettura


Peter Brook: Mahabarata

Una scena dal Mahabarata

Peter Brook Conferenza degli Uccelli, il CIRT, l’Attore Narratore

Peter Brook e il CIRT (Centro Internazionale di Ricerca Teatrale)

Dal 1942, quando diciassettenne dirige il Doctor Faust di Christopher Marlowe, fino al più recente Oh les beaux jours (Giorni felici) di Samuel Beckett, il regista londinese Peter Brook ha messo in scena più di settanta rappresentazioni.

Trasferitosi da Londra a Parigi, crea il Centro Internazionale di Ricerca Teatrale, dove convergono attori provenienti da ogni parte del mondo – inglesi, americani, spagnoli, portoghesi, giapponesi, arabi, africani – i quali, nella babele delle loro lingue, verificano il valore comunicativo del teatro al di là delle distanze etniche, ideologiche e linguistiche. Questo “organismo nomade” attraversa il mondo spingendosi oltre i limiti delle ordinarie tournées ed entra in contatto con persone che non avevano mai assistito a spettacoli teatrali prima di allora.

Memorabile resta il viaggio in Africa, una traversata di cento giorni tra Niger, Nigeria, Mali, Togo e Dahomey, in cui la compagnia senza un copione e senza aver fissato niente a priori, recita nei villaggi, nel deserto, nella foresta tropicale. La sfida è globale e li riguarda come attori, come individui e come gruppo. Non solo occorre sfruttare al massimo tutti i mezzi espressivi per coinvolgere gli abitanti del luogo ma è necessario sviluppare un grande spirito di adattabilità. Le precarie condizioni igieniche, la carenza di acqua, la mancanza di comodità, unite agli inevitabili problemi di convivenza, sono per loro ostacoli quotidiani.


Il teatro di Brook.

In Brook è radicata la convinzione che il teatro sia essenzialmente uno scambio vivo tra chi agisce e chi guarda; entrambe le parti partecipano ad un “coro telepatico” all’interno del quale si trasmette una forte energia creativa che circola e viene condivisa. Affínché tale congiunzione comunicativa possa verificarsi ogni volta ci sia un incontro tra un pubblico ed un attore, quest’ultimo impara attraverso un training quotidiano ad interagire con se stesso, con i partners del gruppo e con il pubblico.

Questi tre livelli di interazione sono definiti dal maestro “ le tre fedeltà”: la fedeltà della concentrazione, sorgente profonda dell’ispirazione; la fedeltà al compagno in scena a cui bisogna adattarsi costantemente; la fedeltà allo spettatore, in rapporto al quale l’interprete deve essere aperto e disponibile.  Tali affermazioni si avvicinano fortemente al concetto in cui può essere sintetizzata la concezione del teatro di Brook: l’arte come relazione, anzi come una rete di relazioni in movimento, viva, che si costituisce ogni volta che interagiscono tra loro le parti descritte in precedenza.


 BROOK L’arte come relazione: l’attore narratore.

L’attore che si forma con Brook è fondamentalmente un attore-narratore. Questo genere di recitazione ha cominciato ad ispirare il regista fin dal suo viaggio in Africa, durante il quale ha potuto costatare come le culture africane e quelle orientali hanno da sempre praticato l’arte del narrare, piuttosto che possedere un vero e proprio teatro.

Egli pensa pertanto ad un attore che,

mettendosi in relazione con il pubblico mentre si accinge a recitare un testo qualsiasi, sia in grado di mantenersi a metà tra l’immedesimazione nella storia, nel personaggio ed una totale estraneità ad essi, in una sorta di alternanza reciproca caratterizzata da un’identificazione solo incompleta e da una distanza momentanea; l’arte del narratore infatti consiste nel tenere gli spettatori con il fiato sospeso mediante la sua abilità interpretativa. Per questi motivi indica un training in cui si alternano esercizi vocali e gestuali. Gli esercizi vocali, ad esempio, tendono a preparare la voce mediante un allenamento costante sulla respirazione, sui ritmi delle sillabe e delle vocali, in modo che la “parola” risulti più incisiva.

Gli esercizi gestuali

spaziando dal “comune riscaldamento” a tecniche più specifiche – yoga, tai-chi, kathakali (particolare danza indiana) – educano l’attore a percepire le intenzioni dei compagni. Esemplare, in questo senso, l’esercizio con le canne di bambù. In cerchio (per eccellenza modello di comunione e comunicazione) il gruppo si scambia delle canne di bambù velocemente. Ognuno, in pochi secondi, deve intuire i proponimenti di colui che gli sta accanto ed essere pronto ad accogliere qualsiasi variante introdotta; per raggiungere tale obiettivo sono indispensabili attenzione e massima concentrazione. A sviluppare queste doti collaborano anche gli esercizi di improvvisazione, che preparano gli attori ad essere pronti all’imprevisto, a saper creare, cioè, in qualsiasi momento e luogo un evento teatrale.

Tuttavia, un evento teatrale oltrepassa sempre il Teatro. La Conferenza degli uccelli per la compagnia di Brook come sessant’anni prima le feste dei Copiaus nei villaggi della Borgogna evoca in simboli e nel suo concreto realizzarsi l’avventura individuale dell’attore in scena e fuori scena.  Laddove, nell’incontro con lo Spettatore – al confine dello spazio contrassegnato dalla “finzione”, quell’avventura assomiglia emblematicamente al viaggio di ogni Uomo: incessante ricerca di sé e del proprio personale Simorg sulla scena della vita.


 

Peter Brook: Conferenza degli Uccelli

Locandina della Nostra elaborazione (con Abraxa Teatro) de La Conferenza degli Uccelli

BROOK Conferenza degli uccelli.

Tra tutte le opere di Brook, La Conferenza degli uccelli – ispirata dall’antico poema persiano di Farid Ad-Din Attar – è quella che meglio riassume l’attività del grande maestro e del suo gruppo di attori. Il debutto dello spettacolo avviene ad Avignone nel 1979.

Per Brook e la sua compagnia,

il testo costituisce un punto di riferimento importante e consente di suscitare una serie di riflessioni sul lavoro che i componenti del Centro hanno intrapreso ormai da anni. “Un oceano” è l’immagine usata dal regista per definire il poema persiano; uno “sconfinato insieme”, profondo e misterioso, liberamente percorribile in ogni senso e direzione.

Per capire più a fondo il significato di tali affermazioni è opportuno soffermarsi, a questo punto, sul racconto di Attar. In quattromilacinquecento versi il poeta, di professione profumiere e uomo assai dotto, narra un viaggio intrapreso da uno stormo di uccelli guidati da un’Upupa.

Un viaggio molto particolare

che prende spunto da una situazione di crisi: i volatili hanno bisogno di un re. Riuniti in conferenza lo individuano nel favoloso uccello Simorg (uccello mitico e dai magici poteri che vive su un albero presso il lago Varksk) e si mettono in cammino per raggiungere la sua corte. Mille dubbi assalgono gli uccelli prima della partenza e numerosi sono i tentativi dell’Upupa di impartire regole e disciplina ai volatili restii a rinunciare alle abitudini della vita giornaliera: sordi al richiamo del viaggio, l’anitra preferisce il suo stagno, la pernice le sue pietre, l’usignolo la sua rosa, il gufo il suo ramo, la cocorita la sua gabbia.  

Soltanto quando l’Upupa,

l’unica capace di non accontentarsi del quotidiano, ammonisce la loro superbia e il loro orgoglio, il viaggio ha inizio davvero. Gli insegnamenti morali dell’uccello-guida saranno fondamentali per lo stormo e li aiuteranno a varcare le sette Valli che conducono al regno del Simorg. Il “Grande uccello”, infatti, si rivelerà a coloro che sapranno vincere le difficoltà della valle della Ricerca, dell’Amore, della Comprensione, dell’Indipendenza, dell’Unità, dello Stupore e della Povertà. Molti non riusciranno a sopportare le fatiche di un tale percorso e si ritireranno; altri, incoraggiati a resistere alla passioni, perverranno alla meta. Nella fiaba di Attar la gioia della scoperta del Simorg è riservata infatti a pochi eletti.

Trenta uccelli su centomila

riescono ad arrivare a destinazione e una sorpresa incredibile colpirà i loro occhi.  Arrivati alla soglia della settima valle si accorgono che il Simorg è uno specchio in cui si riflette la loro immagine (non è un caso che in persiano la parola si morg significhi trenta) e soltanto in quel momento capiscono che il fine del viaggio è la ricerca di se stessi. La metafora è esplicita. Coerentemente con i mistici di ogni razza e credo, Attar descrive la vita spirituale dell’uomo come un pellegrinaggio alla ricerca della Divinità. Il viaggio, l’avanzarnento lento per gradi, il sentiero formato da sette valli sono le tappe simboliche che conducono alla “fusione” tra l’uomo e l’Essere Superiore.

Gli attori si allenano, ognuno sceglie un uccello-personaggio, ne mette a punto una prima caratterizzazione e, infine, si confronta con gli altri dando vita a scene collettive. Brook suggerisce l’uso di maschere balinesi, costruite appositamente per l’occasione, come espediente per “costringere” gli interpreti ad entrare in contatto con le proprie capacità motorie ed espressive liberandosi da canoni e cliché.  Ricorda uno degli attori:

La maschera mi ha aiutato

perché al primo colpo mi ha dato l’essenza del personaggio da rappresentare, la sua stessa presenza […], credo, mi abbia dato il senso di una forma precisa che mi è servita come base per la recitazione.

Oltre alle maschere, il regista si serve di marionette costituite di elementi mobili – scialli e sciarpe – che rappresentano una sorta di “estensione del corpo” dell’attore suggerendogli spunti per il lavoro di creazione.

Tratto da: Gaetano Oliva, Il Laboratorio Teatrale, Milano, LED, 1999

http://www.crteducazione.it/public/materiali/teorici.rtf

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