Eugenio BARBA: Bologna 1998
Il Quaderno di Nessuno
Newsletter di Saggi, Letteratura e Documentazione Teatrale
Iscrizioni Archivio: leggi tutti i documenti sul teatro
2400 iscritti / anno X, n ° 59 – 2011
Eugenio BARBA: Bologna 1998
“nella casa dei sogni” – Discorso in occasione della laurea Honoris Causa
Eugenio Barba ci trasporta nelle molte case dei sogni: dalla biblioteca di Oslo in cui scoprire che erano esistite Auschwitz, Katyn, Hiroshima; al deserto della Namibia in cui scomparire; all’Odin ed a tutti i suoi componenti: la nostra casa dei sogni; ai professori dissidenti dell’Università di Bologna…
Ringraziamo Eugenio BARBA per il permesso alla pubblicazione
Buona Lettura
Eugenio BARBA: Bologna 1998
“nella casa dei sogni” – Discorso in occasione della laurea Honoris Causa
È con orgoglio che ringrazio l’Università di Bologna e i suoi rappresentanti per avermi riportato nella casa dei sogni.
Octavio Paz diceva che non si abita una nazione, ma una lingua. Quando a 17 anni ho lasciato l’Italia e sono andato a lavorare in Norvegia, ho cercato il calore e la protezione della mia lingua in un’isola silenziosa, un santuario: la biblioteca dell’Università di Oslo. Nonostante fossi un operaio, fui ammesso nella sala di lettura. Sceglievo libri italiani, l’unica lingua che sapessi, oltre il latino e il greco. La casa dei sogni – così chiamavo la biblioteca che era situata nella via Drammensvejen. In quel periodo, la mia ancora insufficiente conoscenza del norvegese mi faceva confondere Drammen, una cittadina a 40 km da Oslo con «dröm = sogno».
In questa casa dei sogni appresi a ritrovare i sapori, i colori e i silenzi della mia cultura ma anche a visitare altre dimore, frequentare altre lingue e verità, scoprire altri orizzonti. I libri erano pagine piene di simboli, ma anche colpi di piccone che mi aprivano gli occhi e rivelavano, a me che nel 1954 aveva lasciato l’Italia dopo il liceo in una scuola militare, che era esistita Auschwitz, Katyn, Hiroshima. Nessuno me ne aveva parlato in tanti anni di scuola.
In questa casa dei sogni la Storia prendeva vita in una folla di personaggi, tutti con un doppio profilo. Come Giano, avvenimenti, destini e vicende si abbracciavano in una stretta complementare tra ferocia e ingenuità, idealismo e realpolitik. Questa copresenza di contrari divenne ancora più palese quando all’Università di Oslo studiai con alcuni professori la cui autorevolezza non derivava solo dalla qualità delle loro conoscenze, ma anche dall’impegno e dalla presa di posizione all’interno della loro «istituzione». Erano l’esempio vivente di come si possa usare il prestigio e i privilegi dell’Università per far sognare ad occhi aperti i giovani, ed esercitare l’impegno della dissidenza.
È stato in due istituzioni, l’Università e il teatro, che ho incontrato le persone che mi hanno aiutato a mantenere in vita la fiamma intima e segreta che spinge a realizzare i sogni che si sognano ad occhi aperti.
Sono sogni ostinati e ciechi, come dei bachi che si aprono il cammino dentro di noi e ci mangiucchiano impedendoci di dimenticare la direzione e il senso che diventa il nostro destino. È questo senso e questa direzione, considerati come percorso artistico e intellettuale, che vengono oggi riconosciuti dall’Università di Bologna. Ma esso va aldilà della mia persona e integra uomini e donne che costituiscono il mio universo creativo e sono parte integrante dei suoi risultati: Torgeir, Else Marie, Iben, Roberta, Julia, Jan, Frans, Tage, Kai, Sigrid, Ulrik, Rina, Patricia, Nando. Collaboratori dell’Odin Teatret coi quali, per più di 35 anni, ho costruito muri saldi e mobili: la nostra casa dei sogni.
Adesso il nostro sogno ad occhi aperti è scomparire, in un futuro imprevedibile, tra le dune color ruggine del deserto della Namibia o nella distesa di sale di Atakama, nel nord del Cile. Che di noi rimanga solo una pietra con su scritto «Scomparsi in Oriente». Chi verrà dopo di noi forse inciamperà nei libri di storia del teatro su questa pietra, la prenderà in mano e la scaglierà contro le finestre della serra che lo proteggono facendovi entrare une folata di vento e di sole, e i gridi degli esclusi, come quelli che hanno aperto questa cerimonia, e a cui noi dell’Odin Teatret abbiamo appartenuto e ancora ci sentiamo di far parte.
La carica entropica di un’istituzione risiede proprio nel cuore di quello che costituisce una delle sue qualità: il vincolo a non lasciarsi trasportare dagli entusiasmi passeggeri e dai sogni fallaci. Si può costruire un’istituzione sul sogno, ma la sua durata sarà salvarguardata da statuti e norme scritte. Si può ritrovare l’afflato primordiale se questa istituzione sarà abitata da individui che cavalchino dei sogni, degli individualisti solitari, capaci di agglutinare intorno a degli ideali generazioni sempre giovani affascinate da démoni diversi.
È in vita quell’Università in cui anche un solo professore, dietro o davanti alla cattedra, riesce a piantare e coltivare i semi della dissidenza. E questo vale anche per il teatro.
L’Odin Teatret ha appreso enormemente da questi professori dissidenti. Ci hanno guidato a essere quello che siamo. Alcuni insegnano qui a Bologna. Nel 1967, quando eravamo sconosciuti, un giovanissimo Giuliano Scabbia mi portava in giro per Venezia e mi faceva ritrovare, a me che ritornavo in patria dopo tanti anni, il calore e la curiosità di un fratello. Ferruccio Marotti, nel 1969, si infiammò per Ferai e ci presentò a quel gruppo di suoi collaboratori che con gli anni sono diventati esemplari maestri di dissidenza, Fabrizio Cruciani e Franco Ruffini, per nominare quelli che hanno agito nel DAMS. L’Odin Teatret ha stabilito con questi docenti un dialogo ininterrotto dove si sono intrecciati progetti scientifici, riflessione storiografica e ricerca pratica. La loro dissidenza è stata fondamentale per la durata e per la vita spirituale del nostro gruppo teatrale, essa ci ha nutrito e appoggiato la nostra lealtà verso i sogni ad occhi aperti.
Come spostare i muri stabili e a volte soffocanti delle istituzioni, siano esse teatro o Università? Dieci anni fa, nello spettacolo Talabot, l’Odin Teatret raccontò la storia di una donna vivente, un’antropologa in lotta contro i pregiudizi dell’Accademia che vede nel suo desiderio di maternità un ostacolo per una carriera scientifica: non si può fare della ricerca sul campo con quattro bambini. Lei si ostina, svolge i suoi compiti e le sue attività professionali in modo impeccabile ed ad alto livello, portandosi sempre dietro l’intera famiglia. Diventa internazionalmente conosciuta, riceve l’incarico di «super professore» nella sua Università danese: per cinque anni può dedicarsi alla ricerca, senza preoccuparsi degli obblighi amministrativi, senza dover dare una lezione. Nello spettacolo, un momento solenne era la cerimonia del suo dottorato a Oxford, dove viene incoronata con una grande aureola, una lunga fettuccia avvolta intorno alla
fronte. Diventava una «testa di uovo» protetta da un grande nastro intarsiato con mille informazioni. Su questa fettuccia, veniva poggiato un cappello, simile a quello degli scolari «asini», o a quello che le guardie rosse cinesi infilavano agli avversari del regime. Il memento che ogni intellettuale è ridicolizzato se vuole difendere i suoi valori.
Improvvisamente questa fettuccia si srotolava quando la neo-dottoressa cercava di evadere dal mondo accademico che l’asfissiava. Correva in avanti, invano, perché gli altri professori la trattenevano per il nastro che era avvolto attorno alla sua testa e che si trasformava in briglie. Sì, l’Università imbriglia. Il teatro imbriglia.
Si è baciati dalla fortuna quando si può operare in un ambiente pervaso da tanta tradizione, tanta ricchezza umana, tanto sapere. Ma quanto è facile il rischio di essere accecati dai minuscoli compromessi e dal logorío del tempo, e ridurci alla sola soddisfazione dei nostri privilegi.
Nella mia casa dei sogni, il modello della dissidenza è un giovane universitario che non aveva neanche finito i suoi studi a Lipsia quando fu chiamato alla cattedra di Filologia classica a Basilea. Friederich Nietzsche vi restò 7 anni professore. Poi scese di cattedra, smise di insegnare, rinunciò al prestigio dell’insegnamento. Al momento di ritirarsi, scrisse su un fogliettino quelli che per lui erano i sette principi per la libertà di pensiero e di azione: «Non devi essere né ricco, né povero. Non devi amare il popolo, né devi odiarlo. Evita il cammino delle persone illustri e potenti. Prendi posizione, ma non occuparti di politica. Trova moglie fuori dal tuo popolo. Lascia agli amici la cura di educare i tuoi figli. Non lasciarti abbagliare da nessuna delle cerimonie delle chiese, delle caserme e delle Università.».
Ancora una volta, con orgoglio, ringrazio i Professori dell’Università di Bologna che hanno voluto accogliere tra di loro l’Odin Teatret e me.