BARBA Plymouth 2005

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Eugenio BARBA: Università Plymouth 2005

Il paradosso del mare

Discorso di Eugenio Barba in occasione della laurea Honoris Causa conferitagli dall’Università di Plymouth il 27.10.2005

Eugenio Barba“… Il mio paese ha uno spazio paradossale. Vivere l’esilio come una patria è infatti una contraddizione-in-vita. È un triste segno dei tempi il fatto che questo tipo di esilio possa assomigliare all’utopia. Ma è un segno dei tempi che si è ripetuto spesso nel corso della storia. La professione teatrale, in tutti i paesi e in tutte le epoche, prima ancora di caratterizzarsi per il mestiere di produrre immagini e spettacoli, si è contraddistinta come professione in esilio – o professione dell’esilio.”

Siamo lieti di pubblicare il discorso tenuto da Eugenio Barba in occasione della Laurea Honoris causa conferitagli dall’Università di Plymouth nell’ottobre del 2005

Ringraziamo Eugenio BARBA per il permesso alla pubblicazione.

Buona Lettura



Eugenio BARBA: Università Plymouth 2005

Il paradosso del mare

Discorso di Eugenio Barba in occasione della laurea Honoris Causa conferitagli dall’Università di Plymouth il 27.10.2005

Eugenio BarbaSiglos, armas y el mar que une y separa
Così pensava Ludovico Ariosto secondo Luis Borges: per fare un vero libro servono l’Aurora e l’Occidente, secoli, armi e il mare, abisso invalicabile e via di comunicazione.

Tutto questo non vale solo per i grandi libri dei quali Borges, il moderno Tiresia, parlava. Vale anche per le culture, purché non vengano considerate come universi chiusi da muri metaforici o reali, che si accostano l’una all’altra o cozzano drammaticamente. Dietro il sostantivo cultura si nasconde un flusso di interazioni, appropriazioni, travasi e intrecci che convergono o si ostacolano.
L’unità di una cultura è una ragnatela di contraddizioni: mantiene una propria identità a patto che regga le tensioni e viva nelle metamorfosi.

Mi domando, però: perché le armi?

Quando avevo trenta o quarant’anni, quelle ‘armi’ che nel verso del moderno Tiresia stanno fra i ‘secoli’ e il ‘mare’ mi facevano pensare agli eroi dell’Orlando furioso o della Chanson de Roland, o a Baldovino, quarto re di Gerusalemme, crociato e lebbroso. Ora che sto per compiere settant’anni, quello stesso verso non evoca antiche leggende, ma la cronaca quotidiana dei tempi in cui vivo, gli avvenimenti di cui scrivono i giornali e che compaiono nell’eccitata indifferenza delle televisioni, fra un talk-show e la cronaca d’una partita.

Un paese chiamato esilio
Questi tempi non li riconosco come miei. Voglio e posso godere il vento d’un altro modo di vivere il tempo. Forse è un’illusione, ma il paese in cui abito me la permette. Spesso mi sono chiesto se il mio paese possa essere raccontato come un esempio o se, invece, sia solo un’eccezione. Eccezione fa pensare a qualcosa di eccezionale. Ma è una parola amara, perché so che l’eccezione, alla fin fine, conferma la regola a cui si oppone.

Per sfuggire alla retorica e all’amarezza, mi dico: il mio paese può essere definito un volontario esilio. Il paese in cui abito è il teatro. Ma anche intorno a questa parola bisogna intendersi.

Vi sono teatri che rimangono in piedi come case, sopravvivono ai loro abitanti, e mantengono una propria identità passando di mano in mano.

Vi è poi un’altra identità del teatro, che non si cura di pietre e mattoni. È il teatro la cui architettura consiste solo di relazioni fra le persone che li compongono. Non possono essere né ereditati né riempiti di nuovi contenuti: spariranno con quelle persone. Sono teatri che consistono nell’intreccio dei sentieri che aprono i suoi abitanti. Quando questi smettono di avanzare, anche il loro teatro perde il suo riconoscibile profilo, la sua casa. Per me, ad esempio, pensare ad un Odin Teatret che continui dopo di noi che l’abbiamo fondato, e che ora lo teniamo in vita, sarebbe un controsenso come pensare alla persistenza di un pugno mentre si apre la mano.

Abito un paese di questo tipo. È piccolissimo. È vasto. Siamo in tanti, sparsi sui diversi continenti, lontani, profondamente diversi, stretti da legami solidi, elastici e fragili, come i fili d’una tela di ragno. A volte, siamo in pochi, tre, quattro, quindici persone. Altre volte spendiamo tempo, lavoro e denaro, e allora per due giorni, una settimana, un mese ci raduniamo. Poi torniamo a separarci, e ognuno torna alla non isolata solitudine che lo definisce.

Il mio paese ha uno spazio paradossale. Vivere l’esilio come una patria è infatti una contraddizione-in-vita. È un triste segno dei tempi il fatto che questo tipo di esilio possa assomigliare all’utopia. Ma è un segno dei tempi che si è ripetuto spesso nel corso della storia. La professione teatrale, in tutti i paesi e in tutte le epoche, prima ancora di caratterizzarsi per il mestiere di produrre immagini e spettacoli, si è contraddistinta come professione in esilio – o professione dell’esilio.

L’atto di nascita multiculturale
Dall’interno di questa contraddizione-in-vita è difficile sentire come un problema, come una possibile minaccia o come un’urgenza alla quale far fronte ciò che agita oggi il mondo che ci circonda, l’intreccio e lo scontro fra culture, il loro disputarsi uno stesso territorio, il continuo mutare dei confini. Il multiculturalismo per il paese del teatro non è un’emergenza attuale. È qualcosa di ovvio. Fa parte del suo atto di nascita. Una lunga storia basta a dimostrarlo.

Chi praticava il teatro per mestiere, in Europa come in Asia, ha sempre vissuto in una condizione straniera, come se fosse di passaggio, e le truppe degli attori erano formate da persone provenienti da diverse regioni e da differenti ceti sociali. Il teatro era straniero nel mondo in cui viveva, fra gli spettatori che gli davano da vivere, innanzi tutto perché contraddiceva i confini e le gerarchie che mettevano ordine nella società circostante. Per questo è stato a volte una microsocietà separata, discriminata e disprezzata. E per questo è stato, a volte, un’isola di libertà.

Quando nel Novecento il teatro sembrava destinato a morire perché appariva inadeguato ai tempi ed alle esigenze della modernità, delle sue metropoli, della sua nuova economia e dei suoi nuovi spettacoli, la gente del teatro ha praticato – più per la forza dei fatti che per progetto – una doppia strategia. Da una parte ha indotto la società circostante a riconoscere la professione scenica come un bene culturale da proteggere, sganciandola dalle catene del commercio. La nostra professione è arte – affermarono – e riuscirono a farla sovvenzionare salvaguardandola dietro un valore di eredità nazionale. E mentre questo cambio di mentalità avveniva, alcuni hanno fondato arcipelaghi di piccole isole teatrali autonome. Ognuna di queste isole vive nel proprio ambiente culturale come una trascurabile minoranza, in grado però di aprirsi la via in territori nuovi, uscendo dagli abituali recinti del teatro commerciale o delle tradizionali rappresentazioni artistiche.

La marginalizzazione nel proprio ambiente viene risarcita da un ampliamento del raggio d’azione. Un equivalente processo di compensazione riguarda anche le grandi tradizioni performative. Quanto più ciascuna tradizione classica, di matrice europea o asiatica, perde localmente vigore e diventa inattuale nell’orizzonte del proprio contesto d’origine, tanto più acquista prestigio al di là dei propri confini tradizionali superando le barriere culturali ed allargando il raggio della propria presenza, in un fitto intreccio di scambi e travasi. In altre parole, trova un nuovo equilibrio in un orizzonte multiculturale.

La professione del teatro non è più separata dalle diverse barriere linguistiche. Malgrado le differenze si salda in maniera sempre più evidente in un unico paese professionale planetario. Diventa possibile parlare di una cultura teatrale unitaria che comprende esperienze radicate nel lontano passato, in tradizioni classiche, un tempo rispettate o perseguitate, e in piccole isole autonome che danno vita a pratiche di frontiera.

La diversità è la materia base del teatro. Il fatto che oggi sia vissuta come una drammatica condizione storica e che il suo tema inquieti i governi e i singoli individui, non deve farci dimenticare che essa è ciò su cui il teatro ha sempre lavorato. Chi fa del teatro la propria professione deve saper lavorare sulla propria diversità. La deve esplorare, tesserla, trasformando la cortina che ci divide dagli altri in un velo ricamato, affascinante, attraverso il quale gli altri possono guardare, e ciascuno possa scoprire le proprie visioni. Quali sono le mie visioni? Non le conosco fino a che un velo o una ragnatela d’oro non le cattura. Fino a che qualcosa di strano smette d’essere estraneo e comincia a parlarmi con una voce che non è mia e non è non-mia.

Per un emigrato come me, che afferma che le sue radici sono nel cielo, il teatro è divenuto lo strumento per creare l’incontro e lo scambio, per superare l’indifferenza reciproca. È una tecnica che costruisce relazioni, aiuta a resistere all’omologazione e costruisce ponti.

Organici ponti sotterranei
È interessante osservare quali siano le nervature interne di questi ponti organici. Nei rapporti con gli spettatori, la natura vivente di questi ponti derivano da una capacità di presenza che permette di cementare una qualità di attenzione indipendentemente dalle parole. Lo sperimentiamo di fronte a un attore che sa dare forma al suo corpo-in-vita o a un cantante che sa farsi ascoltare anche quando il suo idioma è sconosciuto.

Nei rapporti fra gli attori di diverse tradizioni e culture, i ponti consistono nel paradosso delle tecniche, simile al paradosso del mare che unisce e separa.

Le tecniche sono doppiamente paradossali, perché cerchiamo di impadronircene al solo scopo, una volta dominate, di farne a meno. A seconda del modo in cui decidiamo di considerarle, sono ciò che più separa chi pratica una stessa professione e ciò che più è in grado di unire. Possiamo scegliere di guardare le tecniche come ciò in cui si distilla il contesto, l’ideologia, la religione o il sogno che sta alla base di una tradizione o di un gruppo teatrale. Così, nel momento stesso in cui le magnifichiamo le rendiamo inservibili, le trasformiamo in un muro o le imbalsamiamo in un museo.

Oppure possiamo decidere di guardarle come terreno di incontro, luogo delle traduzioni fisiche e delle rifondazioni somatiche, che accomuna e consente a professionisti di provenienza lontana di dialogare fra loro.

Siamo noi a stabilire se le tecniche debbono servire a separarci o a unirci. Di per sé non sono nulla. Il loro significato non è nascosto nelle loro origini. Sussurrano qualcosa di importante ad ognuno di noi nel momento in cui cominciamo a scoprire come usarle. Ciascuna cultura ha messo in forma la propria eloquenza spettacolare secondo propri stili. Per farlo, ha dovuto creare un teatro-invita sotterraneo, delle fondamenta organiche con delle tecniche di base.

Lavorando alla superficie degli stili ci si può ammirare a vicenda, si possono anche creare sincretismi a volte molto efficaci ed a volte inclinati al degrado, più confusi che complessi. Lo spazio sotterraneo delle fondamenta, invece, diventa, per la sua stessa natura, il territorio degli scambi, dove il paese del teatro sperimenta la sua multiculturale unità, la sua complessità organica. Le fondamenta non sono cantine né catacombe. Sono paradossali ponti sotterranei, che permettono il passaggio da una parte all’altra del paese del teatro, unito benché materialmente disperso in luoghi geograficamente lontani.

A differenza del teatro, nella vita di ogni giorno non sempre i ponti mettono in comunicazione una regione con l’altra, l’una e l’altra sponda, due tribù, le acque e il cielo.

I ponti e la semplicità
Ronda è una cittadina sulle montagne dell’Andalusia. È conosciuta per il ponte costruito al tempo degli arabi, a strapiombo su una gola dove un fiume si precipita furioso. Durante la guerra civile spagnola, le truppe franchiste lo usarono come comodo luogo di esecuzione per i prigionieri. Li legavano l’uno all’altro, in piedi sul parapetto, poi una pallottola alla nuca al primo della fila, e tutti giù a sfracellarsi sui sassi del fiume, trascinati via dalla corrente impetuosa. In Per chi suona la campana Ernest Hemingway ce ne ha lasciato il ricordo.

Ma è di un altro ponte che voglio parlare. Kozda Mimar Sinan, il Michelangelo dell’impero ottomano, fu l’architetto della moschea di Edirne e di quella di Suleyman il Magnifico a Istanbul, progettò l’impressionante ponte sul fiume Drina a Visegrad, in Serbia, alla fine del XVI secolo. A lui viene attribuito anche uno dei ponti più ammirati d’Europa. Capolavoro architettonico, è stato descritto come l’arco di un arcobaleno che si innalza al di sopra della via lattea, balzando da una dirupo ad un altro. In realtà non fu il geniale Sinan l’ideatore e il realizzatore di quest’altro ponte, fu Harudjin, uno dei suoi allievi. Su richiesta dei cittadini leali, il sultano Suleyman il Magnifico ordinò nel 1666 la costruzione del ponte di Mostar.

Per secoli, il ponte di Mostar dette gloria alla sua città e fu l’orgoglio della sua popolazione di croati cattolici, serbi e croati ortodossi, e croati e serbi musulmani.

Anche l’attore Slobodan Praljak, ogni volta che lo attraversava per andare al suo Teatro della Gioventù, non poteva fare a meno di ammirare i blocchi di pietra levigati dalla carezza del tempo. Slobodan aveva iniziato la sua carriera quando il suo paese si chiamava ancora Repubblica
Socialista della Jugoslavia. Col tempo non si limitava ad esercitare la sua attività artistica come attore, ma metteva anche in scena testi come Un uomo è un uomo di Bertolt Brecht e Il drago di Evgenij Schwartz.

Cominciò lo smembramento della federazione jugoslava. Prima si staccò la Slovenia, poi la Croazia, quindi croati e serbi si scontrarono per annettersi il più possibile del territorio della Bosnia, la cui maggioranza era musulmana. L’attore e regista Slobodan Praljak aveva lasciato il teatro e si dedicava a questa missione di crescita nazionale. In quanto croato, aveva il comando della postazione militare che dalle colline circostanti, martoriava regolarmente la città musulmana. I suoi chetnik erano abili e ingegnosi. Ferivano alla gamba un passante che si spostava tra le barricate, aspettavano quindi che accorressero dei soccorritori, e li liquidavano con precisione, sia il ferito che i suoi soccorritori. Fu Slobodan Praljak, attore e regista apprezzato nell’ambiente di Mostar, a dare ordine ai mortai della sua postazione di bombardare il ponte di Harudjin che aveva sfidato i secoli. Come un arcobaleno, il ponte si volatilizzò in una grigia pioggia di frantumi e si congiunse
all’acqua del fiume.

Il giorno dopo, all’alba, a chi lanciavano il loro saluto i galli allegri, ostinati, lontani? Per chi abbaiavano i cani?

Siglos, armas y el mar que une y separa. Le guerre ci sono sempre state. Le violenze per intolleranza, anche. Razzismo e xenofobia sono sempre esistiti. Ma oggi vediamo che xenofobia, razzismo, violenze e guerra non sbandierano interessi contrapposti, o contrastanti idee sul futuro del mondo. Sbandierano radici, l’urto fra ‘civiltà’. Culture e civiltà sembrano opporsi come un tempo le contrapposte ideologie. Questo, nel XXI secolo, non l’avremmo mai immaginato. È una situazione che sembra appartenere a storie medioevali, alle leggende di Roncisvalle o del sacro sepolcro vuoto per cui la Cristianità attraversò il mare e portò le armi a Gerusalemme. Persino il razzismo criminale che infestò la storia del XX secolo sembra meno arcaico.

I secoli distillano e individualizzano le culture. Il mare le unisce e insieme le separa. I processi organici che le caratterizzano e le tengono in moto sono lunghi, sottili e complessi, a volte incomprensibili. Ma quando le armi entrano in azione, tutto diventa semplice.

Quando la storia parla in termini semplici, le arti e la cultura cadono nella desolazione. I mondi che prospettano paiono iridescenti bolle di sapone che al primo fiato scoppiano per tornare al nulla di cui sono piene.

Noi ci riuniamo per parlare dell’incontro fra culture diverse. Cerchiamo di riflettere sull’arte di marcare i confini per meglio bucarli e attraversarli. Ci interroghiamo sui rischi del sincretismo. Diciamo che la ‘diversità’ non è solo una condizione di partenza, ma un traguardo da raggiungere. E mentre disputiamo sulla complessità, il mondo quotidiano che ci circonda si semplifica. La semplicità è spietata. Dice: “O noi, o loro”.
Ma noi – replica il buon senso pratico – abbiamo bisogno di loro: del loro lavoro.

Così, anche la Legge torna a mostrare il suo aspetto semplice e armato. Alcuni di noi dichiarano: d’accordo, si deve convivere, ma non fino ad accettare che sia messa in discussione l’assolutezza dei valori della nostra civiltà e della nostra tradizione. Accettiamo una società multietnica, purché non sia multiculturale.

In parole semplici: loro stiano fra noi, purché si assimilino. Cioè: purché sottomessi e sfruttati.

Col tempo, lungo un secolo e più, erano stati elaborati compromessi efficaci per mitigare la durezza del mercato in cui si compra e si vende lavoro. Ma questi compromessi possono essere aggirati dalle leggi dell’immigrazione. Il nudo sfruttamento ritrova, così, un colore di legalità: legittima difesa in una guerra fra civiltà. Una bandiera apparentemente più umana e decente copre la prepotenza di chi sa o si illude d’essere il più forte. Le armi e le leggi fingono di non difendere il nostro interesse a prevalere, ma il genuino desiderio di preservare la nostra integrità.

I secoli, il mare sono grandi e immensi pensieri. O forse minuscoli, come i sogni ad occhi aperti che crediamo e speriamo capaci di proteggerci.

Il castello
C’è una luce cristallina qui ad Elsinore, in questo pomeriggio d’agosto. Il mondo che ci circonda è l’immagine dell’ordine, della pace, del buon gusto.

Sul mare, davanti alla costa della Svezia, si stagliano alcune imbarcazioni che sembrano navigare in diversi nastri del tempo. Motori rombanti e barche a remi; barche a vela adatte alle moderne regate e un veliero dalla foggia antica, che ancora mostra di poter dominare silenziosamente il mare.

Il palazzo regale, il castello di Kronborg, si protende verso il mare con le sue grandi vetrate e le sue torri che paiono tutte eguali, ed a guardarle bene sono ciascuna differente dall’altra.

Attorno al castello, il commercio turistico non è mai sfacciato. Dalle parti del porto, la fresca birra danese viene servita da cortesi camerieri marocchini. Siamo nel cuore stesso della civiltà, seduti comodamente sulle nostre speranze.
– Lo faresti, qui, uno spettacolo?
– Nel castello?
– Nelle sale interne, oppure – meglio ancora – nel cortile.
– Mi piacerebbe fare lo spettacolo come una festa di corte, con i suoi lussi e i suoi veleni.
Mentre fuori dalle mura ci sono i venditori ambulanti, il popolo curioso, i saltimbanchi, i
fuochi d’artificio e i cannoni che sparano a salve.
– E lo spettacolo, dentro, sarà…
– … Hamlet, certo.

L’amico Trevor Davis mi propone di creare uno spettacolo per il castello di Elsinore dove, da secoli, gli unici spettri sono solo quelli teatrali. Appena varco la soglia d’entrata, tutta l’architettura del castello conduce il mio sguardo verso l’alto. Sento un desiderio di popolare l’aria che sta in mezzo ai quattro lati del castello. Ofelia anneghera lassù in alto, in un torrente che scorre nel vuoto sotto le nuvole. Un Vescovo antico uscirà dal torrione della chiesa che affaccia nel cortile, e intonerà una predica moderna, invece del to be or not to be. Amleto sarà un figlio braccato da un Padre-Fantasma che lo ama e lo incalza spostandosi incessantemente nel vuoto sopra gli spettatori.

Ecco il cuore della mia civiltà: del grande teatro e della piccola Danimarca.

Poi sento i cani abbaiare. Sono tanti. Paiono feroci. L’incantesimo del mare su cui si affaccia il castello sparisce, lampi bui solcano la luce cristallina d’agosto. Basta un banale abbaiare di cani per farmi cambiare idea?

L’attualità della storia ha molte voci.

Niente saltimbanchi attorno alle mura del castello. E niente festa aristocratica all’interno. Niente Shakespeare, ma le nude lotte di potere, gli inganni e i massacri così come li raccontò il medioevale Saxo, nel suo elegante latino che pochissimi erano in grado di comprendere. Niente apparizioni dall’Aldilà e niente pathos di domande esistenziali: solo il panico angosciato per veri o supposti nemici.

Immagino l’illusoria sicurezza della gente che popola il castello. Immagino le loro leggi sfrondate dalla retorica della giustizia e ridotte al puro rapporto di forza, come quelle che Machiavelli detterà al suo Principe, talmente semplici e prive di alibi morali, che il loro autore parve ai suoi contemporanei un emissario dell’inferno.

Non è Fortinbras a minacciare il castello, ma topi e stranieri. La gente del posto, per paura della peste, dà loro la caccia con spietata freddezza. Vede in quei miseri bisognosi di un ricovero dei futuri nemici interni, il segno di un assedio a venire.

Lì si aggira Saxo, fra la legge delle Armi e le armi della Legge, solitario come un cieco. Aveva un tempo descritto il suo paese come un ricamo di acque, mari e fiumi, fra i quali emergono, incastonate come gioielli, le terre danesi. Ora, in Elsinore, contempla e descrive, sarcastico e inutile, il risorgere di arcaiche barbarie nel cuore stesso d’uno degli storici castelli della mia cultura.

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