Eugenio BARBA figli del silenzio
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1430 iscritti / anno IV, n ° 22 / maggio 2005
Eugenio BARBA, Figli del silenzio
Riflessioni per i quarant’anni dell’ Odin teatret
“…Ed eccomi qui a festeggiare i quarant’anni del mio teatro preparando uno spettacolo su H.C. Andersen e le sue fiabe. Ho quasi settant’anni e mi diranno che sto diventando infantile. Vorrei scriverla anch’io una fiaba. Racconterebbe di due fratelli, figli del Silenzio, che girano il mondo l’uno come l’ombra dell’altro. Hanno l’aspetto di teppisti e si chiamano Disordine ed Errore…”
E’ con vivo piacere che pubblichiamo questo scritto di Eugenio Barba redatto in occasione dei 40 anni dell’Odin Teatret.
Ringraziamo Eugenio BARBA per il permesso alla pubblicazione.
Buona Lettura
Eugenio BARBA, figli del silenzio
Riflessioni per i quarant’anni dell’ Odin teatret
Spesso reagisco come cinquant’anni fa. “Guarda quella persona anziana”, mi dico osservando un uomo o una donna d’una quarantina d’anni. E subito rido di me. Mi rendo conto che ha l’età del mio teatro ed era ancora nell’infanzia quando io già pensavo che ogni mio nuovo spettacolo fosse l’ultimo.
Mi viene da sorridere anche quando l’Odin Teatret arriva in tournée in una nuova città ed incontriamo dei giovani che ci conoscono dai libri. Ci credono un capitolo della storia del teatro e la nostra abnorme persistenza scompiglia il loro modo di pensare.
Le ossa fanno male, la vista si è affievolita e costa più fatica lavorare dodici ore al giorno. Eppure è come se una forza poco sensata tenesse vivo la mia necessità di far teatro. Sono molti i motivi per cui continuo. Posso sintetizzarli con una frase: la professione teatrale è la mia sola patria, e Holstebro la sua casa.
Ed eccomi qui a festeggiare i quarant’anni del mio teatro preparando uno spettacolo su H.C. Andersen e le sue fiabe. Ho quasi settant’anni e mi diranno che sto diventando infantile.
Vorrei scriverla anch’io una fiaba. Racconterebbe di due fratelli, figli del Silenzio, che girano il mondo l’uno come l’ombra dell’altro. Hanno l’aspetto di teppisti e si chiamano Disordine ed Errore.
Disordine
Negli ultimi anni, uso sempre più spesso la parola “Disordine” quando parlo dell’artigianato teatrale – e so che crea confusione. È una parola che per me ha due significati opposti: l’assenza di logica che caratterizza le opere insignificanti; oppure quella coerenza che provoca l’esperienza dello scompiglio nello spettatore. Avrei bisogno di due parole diverse. Uso un trucco ortografico – la differenza fra l’iniziale minuscola e la maiuscola – per distinguere il disordine come perdita d’energia, dal Disordine che è l’irruzione d’una energia che ci confronta anche con l’ignoto.
Quello che ho sempre desiderato con i miei spettacoli, è suscitare il Disordine nella mente e nei sensi di un particolare spettatore. Vorrei produrre una scossa nelle sue abitudini di pre-vedere e giudicare, mettere in moto un’oscillazione emotiva, seminare stupore.
Lo spettatore di cui parlo non è un estraneo, una persona da convincere o conquistare. In primo luogo sono io. Chi fa uno spettacolo ne è anche spettatore. Il Disordine (con la maiuscola) può essere un’arma o una medicina contro il disordine che ci assedia, dentro e fuori di noi.
So che non c’è un metodo per provocare il Disordine nello spettatore. Eppure ho la certezza che mi ci posso avvicinare con una particolare forma di autodisciplina. Questa presuppone una separazione dai modi giusti e ragionevoli di considerare i valori, gli obiettivi e le motivazioni della nostra professione. È un atteggiamento profondamente individuale che nessuno ci può imporre o elargire. Si tratta di una liberazione e come tutte le liberazioni è dolorosa.
Una radura
La radura nella boscaglia è a pochi chilometri da una città. Un pugno d’uomini e donne si radunano davanti ad una baracca. Appartengono alla classe delle persone dominate e sfruttate in una colonia, in Africa, alla metà del Novecento. Il raduno è segreto e proibito. Sembra una congiura, ma non lo è, perché i fucili sono finti, come quelli che si usano in teatro. Ma non è teatro. Eppure le persone si travestono e si trasformano in personaggi. Depongono il loro modo quotidiano di parlare e camminare, e ne assumono un altro. Fingono. È un gioco? Fanno sul serio. Compiono, di comune accordo, un’azione trasgressiva e violenta. Un cane bolle in una grande pentola, al centro della radura e la sua carne, che per loro è tabù, viene divorata.
Le persone trasformate in personaggi sono possedute, ma non dagli dèi del loro passato. Al posto delle tradizionali divinità si manifestano i loro attuali padroni: il governatore della città, il capo della polizia, le dame dell’élite europea in un paese coloniale. Gli africani, per qualche ora, non sono più dominati dai bianchi che li governano. Li incorporano e, attraverso la possessione, diventano momentanei padroni di se stessi.
I protagonisti del rito sembrano folli e scomposti. Ma l’europeo che fissa le loro immagini in un film li considera dei maestri e li chiama “maestri folli”: due termini inconciliabili nello sforzo di definire il Disordine.
Una notizia appena letta sul giornale mi spinge a rivedere le sequenze cinematografiche vecchie di mezzo secolo di quei posseduti in una radura africana. Per uno scherzo dell’immaginazione e della memoria, mi affiorano in mente le figure d’altri maestri scomparsi, a me cari e sempre vicini.
Maestri folli
Nella notte fra mercoledì 18 e giovedì 19 febbraio 2004, Jean Rouch è morto a 86 anni in un incidente d’auto nel Niger, a 600 km a nord di Niamey. Era un maestro della cinematografia francese, uno dei padri della “Nouvelle Vague”. Lo chiamavano le maître du Desordre, il maestro del Disordine. Cinquant’anni fa, nei dintorni di Accra, la capitale del Ghana allora colonia britannica, aveva girato Les maîtres fous, un film etnografico che mostra direttamente uno dei casi in cui le catene pesano ancora dolorosamente sulla carne, ed il Disordine e lo strazio si legano al tentativo di liberazione.
Per il teatro europeo del secondo Novecento questo film era la testimonianza di un’altra razionalità, sotterranea ed eversiva. Impressionò Jean Genet, che avrebbe scritto Les Nègres; colpì Peter Brook per il suo Marat-Sade di Peter Weiss e accompagnò Grotowski nelle sue riflessioni sull’attore. Nell’ambiente teatrale circolavano aneddoti e leggende sulle influenze di Les maîtres fous. In quegli anni si facevano sempre più frequenti i paralleli e le distinzioni fra teatro e rituale. Alcuni artisti stavano predisponendo un sottotesto, oggi evidente: il teatro può essere una radura nel cuore del mondo civilizzato, un luogo privilegiato in cui evocare il Disordine.
Passiamo per un momento a Mosca, dove le strade sono bianche di ghiaccio. Uno dei primi giorni di gennaio del 1889, Anton Cechov scrisse una lunga lettera al ricco editore e letterato Aleksej S. Suvorin. Leggendola sento lo stesso rovente sapore di sofferenza e tracotanza che provo osservando la cerimonia nella radura africana: il cocente tormento della liberazione. Con crudo realismo Cechov descrive in anticipo le tensioni e i trasporti dei partecipanti di quella cerimonia quando tratteggia un uomo “che goccia a goccia strizza fuori lo schiavo che ha in sé”. Non è un ex-schiavo africano, è il grande e famoso scrittore russo, figlio d’un servo. Malgrado il relativo benessere che lo circonda, riconosce in sé le piaghe di catene invisibili. Molte volte ha subito le frustate del padre e degli insegnanti che lo hanno educato a venerare le gerarchie, a baciare la mano ai pope, ad inchinarsi alle idee altrui, a profondersi in ringraziamenti per ogni boccone di pane. Era diventato un giovane che tormentava gli animali, pranzava con piacere dai parenti ricchi, era ipocrita con Dio e con gli esseri umani senza alcun bisogno, solo perché era consapevole della sua insignificanza.
Il Cechov che confessa la lotta contro le proprie catene ed il proprio senso di nullità è un sensibile e auto-ironico scrittore della civilissima Europa. Non vi è nulla di scomposto nelle sue parole. Ma la sua compostezza è nutrita dallo stesso Disordine che nutre le azioni di quella cerimonia africana, sconvolgenti, sconvolte e – ai nostri occhi – scomposte.
Alla notizia della morte di Jean Rouch, maestro del Disordine, mi chiedo: i suoi folli maestri dicono qualcosa anche su di me, sulla mia storia, sui miei immaginari antenati teatrali? Da quali catene cerchiamo di svincolarci? Non lo so spiegare, ma qualcosa di non formulabile, quasi d’inverecondo, mi spinge a riconoscere in alcuni artisti teatrali del passato dei maestri folli e posseduti.
Silenzio
Appena penso all’estremismo del loro pensiero, i protagonisti della rivolta teatrale del XX secolo, a cominciare da Stanislavskij, diventano per me maîtres fous. In un clima di rinnovamento dell’estetica teatrale, avanzarono domande talmente incongrue da esser accolte con indifferenza e derisione. Poiché il nocciolo incandescente di queste domande era avvolto in teorie professionalmente ben formulate, alcuni le considerarono semplici attentati contro l’arte del teatro, oppure “utopie”, un modo inoffensivo per dire che non c’era bisogno di prenderle sul serio.
Ecco alcuni noccioli:
– cercare la vita in un mondo di cartapesta;
– far zampillare la verità in un mondo di travestimenti;
– conquistare la sincerità in un mondo di finzioni;
– fare dell’educazione dell’attore – che imita e rappresenta persone diverse
da sé – il cammino verso l’integrità di un Uomo Nuovo.
Per di più, alcuni dei maestri dell’estremo, avevano aggiunto demenza a demenza. Incapaci di capire che quelle “utopie” erano irrealizzabili – le avevano realizzate.
Immaginiamo un artista d’oggi che chieda una sovvenzione al Ministero della Cultura per cercare, tramite il teatro, la Verità. Immaginiamo il direttore di una scuola teatrale che scriva nel suo programma: qui insegniamo l’arte dell’attore con l’obiettivo di creare un Uomo Nuovo. Immaginiamo un regista che esiga dai suoi attori la conoscenza della danza perché rispecchia l’armonia delle Sfere Celesti. Sarebbe lecito dire che farneticano. Perché allora gli storici del teatro ci presentano Stanislavskij, Copeau e Appia come se le loro folli domande fossero nobili utopie e originali teorie?
Oggi non costa niente vedere in quella apparente demenza una reazione oculata agli scricchiolii di un’epoca che stava mettendo in crisi la sopravvivenza stessa del teatro. È facile riconoscere, oggi, perspicacia, coerenza e perizia nello scompiglio che i maestri del Disordine portarono nel teatro del loro tempo. Ne rinnegarono l’organizzazione secolare, ribaltarono le gerarchie, sabotarono le ben sperimentate convenzioni di comunicazione fra il palcoscenico e la platea, tagliarono il cordone ombelicale con la letteratura e con il realismo di superficie. Spogliarono brutalmente il teatro fino a ridurlo alla sua essenza. Si giustificarono con un paradosso della pratica. Dettero vita a spettacoli inimmaginabili nel loro estremismo, nella loro originalità e raffinatezza artistica per negare che il teatro sia solo arte. Con parole diverse ognuno di loro ribadì che la vocazione del teatro era di rompere le catene intime, professionali, etiche, sociali, religiose o culturali.
Ci siamo abituati a leggere la storia del teatro moderno a rovescio. Non partiamo dai noccioli incandescenti delle domande e dalle ossessioni dei maestri del Disordine, ma dalla ragionevolezza o dalla poesia delle loro parole stampate. Le loro pagine hanno un piglio autorevole e sicuro. Ma per ognuno di loro ci furono notti di solitudine e sgomento, quando sospettarono che i mulini a vento contro cui combattevano fossero in realtà invincibili giganti. Li vediamo effigiati in belle foto: volti intelligenti, ben nutriti e ironicamente placidi, come Stanislavskij; volti da re mendicanti, come Artaud; alteri e consci della propria superiorità intellettuale, come Craig; corrucciati e pugnaci come Mejerchol’d. È impossibile percepire che in ognuno di quegli spiriti brillanti covava l’incapacità di dimenticare o d’accettare le proprie invisibili catene. Non siamo in grado di accettare che la loro efficacia deriva in parte dallo sforzo di allontanarsi da una condizione di silenzio impotente.
L’arte capace di suscitare l’esperienza dello scompiglio, e quindi di cambiarci, nasconde sempre la zona di silenzio che l’ha generata. Penso a quel silenzio che non è una scelta, ma una condizione sofferta come un’amputazione. Un silenzio che genera mostri: auto-denigrazione, violenza su di sé e sugli altri, nera ignavia e rabbia inefficace. A volte, però, questo silenzio riesce a nutrire il Disordine.
L’esperienza del Disordine non riguarda le categorie dell’estetica. È il sopravvento di un’altra realtà sulla realtà. Come quando nell’universo della geometria piana piomba un solido. Come quando inaspettatamente la morte fulmina una persona cara. Come quando, nel giro d’un secondo, i sensi si infiammano e sappiamo d’essere innamorati. Come quando in Norvegia, appena emigrato, qualcuno m’ha chiamato con disprezzo “dago” e m’ha sbattuto la porta in faccia.
Quando il Disordine ci investe, nella vita come nell’arte, ci destiamo improvvisamente in un mondo che non riconosciamo più, e non sappiamo ancora come riassestare.
Una radura nella confusione
I percorsi artistici sono sempre sentieri individuali che tentano di sfuggire ai meccanismi prefabbricati, ai binari ed alle ricette. Debbono scoprire la loro organicità che è la nostra “necessità”. Sono sentieri che respirano e vivono secondo una personalissima autodisciplina.
L’autodisciplina non corrisponde alla volontaria adesione a norme inventate da altri. Lo ripeto: consiste nel separarsi dai modi giusti e ragionevoli di considerare i valori, le giustificazioni e le finalità della nostra professione. Implica anche la forza d’animo per affidarsi a quel silenzio dentro di noi che ci incatena ed incute paura, ma che intuiamo possa guidarci come un maestro folle in una radura africana.
L’autodisciplina, che è una delle premesse per realizzare il Disordine nella mia mente di spettatore, nasce da un grumo di silenzio. Ha una natura talmente particolare da restare sconosciuta anche a me stesso quando ne sento il sommovimento. Per questo non c’è un metodo che guidi a realizzare il Disordine.
Vi sono spettacoli dove gli attori, il regista e gli spettatori conoscono in partenza la storia. Vi sono spettacoli dove gli attori e il regista la conoscono e gli spettatori la ignorano. Con gli anni, mi piace far crescere un tipo di spettacolo in cui, all’inizio, né io né gli attori riusciamo ad immaginare la storia che stiamo raccontando. Dobbiamo scoprire non solo come raccontarla ma anche che cosa stiamo raccontando. Solo lo spettacolo a cui daremo vita ci può in parte svelare che cosa volevamo dire.
È un modo consapevolmente azzardato di perdermi e ritrovarmi avvalendomi di due forze in contrasto tra di loro: da una parte confido nella mia esperienza professionale, dall’altra cerco di invalidarla costruendo sconnesse e faticose condizioni di azione. Voglio paralizzare le certezze delle mie cognizioni, disattivare i manierismi dei miei riflessi, e rivivere l’esperienza della prima volta, rivitalizzando il mio sapere attraverso lo sconcerto di fronte ad una situazione che non padroneggio. È un’impresa attuabile solo con gli attori dell’Odin Teatret le cui forti personalità si sono temprate attraverso questa paradossale esplorazione: sappiamo come cercare ma non sappiamo ancora cosa.
Debbo comporre un nuovo spettacolo. Il primo sforzo consiste nel saper creare uno stato di incubazione collettiva a partire da “buchi neri”: due, tre differenti testi o storie accattivanti, un nucleo di domande inconciliabili tra di loro, l’accostamento di tematiche discordi. Gli attori ed io lasciamo che questi “buchi neri” agiscano su di noi per attrarre un flusso di idee, ricordi, fantasmi, episodi biografici o immaginari, fatti di cronaca. Attraverso improvvisazioni e un lavoro di composizione cosciente diamo a questo flusso interiore un’anatomia, un sistema nervoso, un temperamento dinamico e sonoro sotto forma di azioni fisiche e vocali. Questi materiali scenici saranno macerati, miscelati e distillati nel corso delle prove lasciando apparire, a volte, nessi sensoriali, melodici, ritmici, associativi e intellettuali impossibili da prevedere: quello che ignoravamo all’inizio.
È un processo tallonato senza tregua da incertezza e apprensione. I giorni e le settimane volano via e sentiamo di essere arenati in un guazzabuglio di disparate proposte, potenzialità scollegate, un ammasso di incongrue scene e direzioni: la confusione. Procedo a balzi, per coincidenze, incoerenze, equivoci ed interferenze fortuite. Decido senza sapere perché, e intuisco a intervalli sconnessi. Solo mi conducono stanchezza e caparbietà. Con il tempo, ho acquistato una certa dimestichezza con il mio modo di pensare e afferrare con parole i miei pensieri che interpreto a me stesso e ai miei compagni. Dei riflessi condizionati mi avvertono quali vicoli siano ciechi e quali, invece, portino a casa. Inseguo dei presentimenti. Presagisco la casa dei venti che stiamo costruendo alla cieca.
Questo modo di procedere non è certo un esempio da seguire, specialmente per un regista che inizia o si lascia sedurre dal fascino della serendipità: scoperte fortuite e soluzioni inaspettate attraverso un voluto errare (sbagliare e vagare senza obiettivo) per un penoso periodo di prove.
Quando cerco di appoggiarmi a regole certe mi trovo ben presto sbeffeggiato per la mia ingenuità. Se mi rassegno all’idea d’un mondo assolutamente privo di regole, pago questa mia ingenuità con fallimenti altrettanto radicali. Che c’è, allora, in mezzo, fra la regola e l’assenza di regole? Fra la legge e l’anarchia? Se penso in astratto, sembra che non vi sia niente. Ma la pratica mi insegna che vi è qualcosa che ha insieme i caratteri della regola e quelli della sua negazione. Questo qualcosa in genere lo si chiama errore ed è lui a guidarmi fuori dalla confusione. Riconosco due tipi di errori: solidi e liquidi. L’errore solido si lascia misurare, modellare o modificare fino a perdere il suo carattere di inesattezza, equivoco, insufficienza o assurdità. Si lascia riportare alla regola o trasformare in ordine.
L’errore liquido non si lascia ghermire o valutare. Si comporta come una chiazza di umidità dietro una parete. Indica qualcosa che viene da lontano. Vedo che una certa scena è “sbagliata”, ma se sono paziente e non faccio uso immediato della mia intelligenza, mi rendo conto che non va corretta, ma inseguita. Proprio il fatto che sia tanto palesemente sbagliata mi fa sospettare che non sia semplicemente sciocca, ma che segua una sua strada laterale, che ancora non so dove va a finire. La cosa più difficile da imparare è la capacità d’aggrapparsi all’errore, non per rettificarlo, ma per scoprire dove porti.
Questo tacito sapere è infossato in me, nei miei nervi, nel muscolo del cuore. Non si lascia insegnare o trasmettere come il disegno d’un metodo formulabile e applicabile. Ciascuno, impigliandosi nella confusione, passando per abbagli e sbandamenti e battendo la testa contro il proprio silenzio e la propria solitudine, deve sapere sovvertire la propria sicurezza professionale ed indovinare come aprire una falla al suo peculiare Disordine.
Anarchia delle fiabe ed arte dell’errore
Il Disordine non costruisce niente. A volte è intensamente spiacevole, ma collabora a rompere le catene.
Mi hanno insegnato: ama i tuoi nemici. Nella vita quotidiana è l’impresa dei santi. Nella vita artistica è la normale pratica dell’artigiano. Quante volte, preparando uno spettacolo, piombo nella confusione e mi accorgo d’aver sbagliato strada. Confusione e disorientamento sono nemici da amare.
Mi hanno insegnato: la vita è un sogno. Non è vero. La vita è una fiaba. È un mondo di pura anarchia dove chi cerca caparbiamente di guadagnare, e si sforza di seguire una via ragionevole, perde. E chi invece si comporta in maniera dissennata, trova alla fine una principessa.
Il mondo delle fiabe è pura anarchia perché concentrato essenzialmente sulla necessità di rompere le catene. La fiaba rompe le catene che legano i racconti al mondo così com’è. Paga però questa libertà con il rischio dell’arbitrio. Perciò è popolata di mostri, di ombre dotate di vita autonoma, di donne ed uomini per metà animali, di morti che parlano e di oggetti vivi e pensanti. Non è il mondo del mito o della fantasia. È quello della confusione. È un mondo che i bambini amano. Ma che non ama i bambini. Essi vi muoiono a profusione. Vi vengono abbandonati e sopraffatti. Sperimentano la realtà nuda: ansia e paura frammiste a lampi di giustizia insensata.
Che cosa mi insegna la pura anarchia delle fiabe per il mio lavoro teatrale?
Durante le prove, quando prende il sopravvento la confusione, tutto si fa indistinto. La nebbia impedisce di trovare qualsiasi direzione. Per orientarmi, debbo sforzarmi di condensare l’evanescenza della confusione in solidi errori da correggere ed eliminare, restituendo ordine alle circostanze. Parallelamente devo saper individuare gli errori liquidi sui quali scivolare fin dove non avevo immaginato d’arrivare. Dove non volevo o credevo di poter andare.
Se fosse vero che le favole insegnano qualcosa, dovrei ammettere che ammaestrano soprattutto sulla benedizione dell’errore. La stupidità o la smemoratezza d’un protagonista, uno scambio di persona, un sonno prolungato, un corvo morto che ti metti in tasca sono spesso le premesse e le condizioni per un imprevisto lieto fine.
Esiste dunque un’arte dell’errore?
Ora, dopo quarant’anni con l’Odin Teatret, credo di poter affermare che ci sono errori che potenziano la confusione, ed errori che liberano. Più che all’ispirazione, alla voce della musa, del dáimon, del duende o dell’angelo custode, credo in qualcosa di ben più concreto: gli errori che affrancano quando abbiamo l’accortezza di presagirli e rincorrerli. Sono un segno che si stacca dal silenzio. Provengono da quella parte in noi che non conosciamo. Dovremmo considerarli un messaggio che il maestro folle ci ha affidato.
Materiali organici
Tutto questo a che vedere con l’intero corpo, non solo la carne e le ossa, ma i muscoli, i nervi, le relazioni complesse fra organi, circolazione sanguigna, sinapsi. Il corpo è ciò che più assomiglia al pensiero proprio perché organismospirito: corpo-mente.
Per questo mi hanno sempre appassionato i materiali organici di cui è fatto il teatro. E le irradiazioni che da quei materiali si sprigionano. Amo lavorare con questa materia vivente per intrecciare dialoghi silenziosi con spettatori antropofagi – coloro che vengono con il bisogno di divorare con i sensi. Mi piace servirmene per aprire sentieri che appena aperti si richiuderanno dietro di me, ma che consentono a me e ai miei attori di rimanere in transizione.
Il cozzo inatteso con una realtà teatrale che semina scompiglio dentro di me l’ho vissuto più volte durante il mio apprendistato. Rimangono indelebili nel mio midollo e nel mio cervello La Madre di Gorkij-Brecht al Berliner Ensemble, uno spettacolo Kathakali nell’umida notte indiana, Il principe costante di Grotowski.
In maniera altrettanto imprevista e non voluta ho sperimentato e continuo a sperimentare il Disordine nel lavoro con i miei attori. Fin dai primi anni, certi disegni delle loro azioni fisiche o vocali, a forza di essere ripetuti e raffinati, saltavano verso un’altra natura o realtà d’essere.
L’ho constatato personalmente: da un altrove che non so dove sia e che cosa sia, nella mia arena di galli piomba o emerge un corpo più denso, incandescente e luminoso dei corpi che possediamo. Questo corpo-in-vita vi fa irruzione, incurante del buono o del cattivo gusto, per l’imprevisto d’una laboriosa previsione o per la congiunzione del caso e del mestiere,
Il teatro ha costituito – oggi me ne rendo conto con chiarezza – uno strumento prezioso per fare incursioni in zone del mondo che sembravano fuori dalla mia portata.
Incursioni nelle terre incognite che caratterizzano la realtà verticale, o spirituale, dell’essere umano. E incursioni nello spazio orizzontale delle relazioni umane, degli ambiti sociali, dei rapporti di potere e della politica, nella vischiosa realtà quotidiana di questo mondo che abito ma a cui non voglio appartenere.
Ancora oggi continua ad avvincermi il fatto che il teatro fornisce strumenti, vie e coperture per incursioni nella doppia geografia: quella che mi circonda e quella che sono io a circondare. Da un lato il mondo esterno, con le sue
regole, la sua vastità, le sue zone incomprensibili e seducenti, il suo male e il suo caos; dall’altro il mondo interno con i suoi continenti ed oceani, le sue pieghe e i suoi fecondi misteri.
Cosa è stato il training dei miei attori se non un ponte fra questi due estremi: fra l’incursione nella macchina del corpo e l’apertura di varchi all’irruzione di un’energia che rompe i limiti del corpo?
Il teatro è il mestiere dell’incursione, un’isola galleggiante di dissidenza, una radura nel cuore del mondo civilizzato. Rare, privilegiate volte, è la turbolenza del Disordine che scuote il mio modo familiare di convivere con lo spazio ed il tempo attorno a me e, creando scompiglio, mi costringe ad affrontare l’altra parte di me.