Franco PERRELLI: GROTOWSKI, gli ultimi anni
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1950 iscritti / anno IX, n ° 53 / settembre/ottobre 2010
Franco PERRELLI: GROTOWSKI, gli ultimi anni
Un’arte verticale.
“Noi diciamo: è il popolo che ha cantato. Ma tra questo popolo, c’è qualcuno che ha cominciato. Hai la canzone, devi chiederti dove è nata. […] Alla fine, scoprirai di venire da qualche parte. Come si dice in un’espressione francese: “Tu es le fils de quelqu’un” [Tu sei il figlio di qualcuno]. Non sei un vagabondo, sei di qualche parte, di qualche paese, di qualche luogo, di qualche paesaggio. C’era gente reale attorno a te, vicino o lontano. Sei tu duecento, trecento, quattrocento o mille anni fa, ma sei sempre tu. Perché colui che ha cantato le prime parole era figlio di qualcuno, di qualche posto, di qualche luogo; allora, se ritrovi tutto ciò, tu sei figlio di qualcuno. Se non lo ritrovi, non sei il figlio di qualcuno; sei separato, sterile, infecondo…”
Di questo, e molto altro, ci parla questo saggio per il quale ringraziamo per il permesso alla pubblicazione il Prof. Perrelli e le Edizioni di Pagina-Casalini Libri nella persona della Sig.ra F. Lobascio.
Segnaliamo che “Tu es le fils de quelqu’un” nasce da una conferenza tenuta da G. a Firenze nel 1985 ed è già stata oggetto di un precedente numero del nostro “Quaderno” , clicca qui
Buona Lettura
Franco PERRELLI: GROTOWSKI
Un’arte verticale. GROTOWSKI: gli ultimi anni,
1. «Abbiamo nel nostro corpo un corpo antico» – afferma Jerzy Grotowski nel 1985-86 – «un corpo rettile, potremmo dire. […] Ho cominciato a chiedermi come tutto ciò fosse collegato a un’energia primaria, come – attraverso diverse tecniche elaborate nelle tradizioni – si sia cercato un accesso a questo antico corpo dell’uomo » 1. Tale interrogativo è il presupposto del progetto sul Dramma oggettivo (The Objective Drama Project), la nuova fase di ricerca che il maestro polacco sviluppa fra il 1983 e il 1986 (con diramazioni prospettiche fin negli anni Novanta) 2, nel corso del suo soggiorno americano, in particolare presso l’Università di Irvine, e nel tragico periodo della rivolta polacca e della chiusura del Teatro Laboratorio di Wroclaw (agosto 1984).
La definizione di dramma oggettivo, secondo Zbigniew Osinski, sarebbe debitrice alla distinzione che Georges I. Gurdjieff fa tra un’arte soggettiva, legata alla capricciosa percezione dei fenomeni da parte dell’individuo, e un’arte per l’appunto oggettiva, che per la sua peculiarità sovraindividualistica può svelare le leggi del fato e del destino umani 3. Il Dramma oggettivo portava naturalmente a compimento stimoli dalla precedente fase di ricerca grotowskiana, detta del Teatro delle fonti (o delle sorgenti) 4, e già s’innestava nell’estremo fascinoso stadio dell’ Arte come veicolo, ovvero della ricerca di un agire che, indirizzato verso il performer, fa slittare l’asse dello stanislavskiano e attoriale «lavoro su se stessi» dalla dimensione del teatro a una più globale pregnanza esistenziale 5.
Inevitabilmente, secondo Richard Schechner, la figura di Grotowski finiva in tal modo per individuarsi e stagliarsi come quella di un ricercatore «legato a un’antica tradizione di gnosi e alla figura hassidica dell’esiliata, erratica Shekhinah» o luce della sapienza, che si apriva quindi a un’indagine «su “verità disseminate”, scintille nascoste in luoghi lontani» che dovevano essere riunite e riassemblate, orientandosi verso «un fine spirituale: la ricerca e l’educazione per l’anima di ogni performer» 6.
Grotowski infatti – come scrive altrove Schechner – ritiene «che esistano alcuni suoni, ritmi, gesti e movimenti i cui effetti siano oggettivi ovvero fondati sui sistemi
fisiologici e/o archetipici. I battiti del cuore, le forme del respiro, le tonalità di una certa altezza e precise serie di suoni, un certo tipo di espressione del volto, le posizioni del corpo e delle mani con i movimenti costituiscono per Grotowski un sistema performativo interculturale o universale» 7. Poiché tali elementi di dramma oggettivo si riscontrano in certe forme liturgiche, Grotowski intendeva cogliere espressioni performative di culture differenti (danze sciamaniche e rituali coreane, dervisce, balinesi; hatha yoga; karate giapponese e soprattutto vudù haitiano) 8 poste talora in connessione, in termini di canto, con suggestivi testi letterari, per svilupparle come performances al di fuori del loro contesto d’origine. Riconnettendosi quindi ad antecedenti fasi della sua ricerca e, in un modo radicale, ancora una volta, ad Adam Mickiewicz e al peculiare culto polacco degli avi 9 (con il suo concetto romantico che la dimensione del singolo presuppone come radice vincolante il popolo), Grotowski concentra la propria attenzione soprattutto sulla «vera canzone tradizionale, che è anonima», ma che può costituire un canale che a ritroso ci riconduce a qualche paternità o maternità:
Noi diciamo: è il popolo che ha cantato. Ma tra questo popolo, c’è qualcuno che ha cominciato. Hai la canzone, devi chiederti dove è nata. […] Alla fine, scoprirai di venire da qualche parte. Come si dice in un’espressione francese: “Tu es le fils de quelqu’un” [Tu sei il figlio di qualcuno]. Non sei un vagabondo, sei di qualche parte, di qualche paese, di qualche luogo, di qualche paesaggio. C’era gente reale attorno a te, vicino o lontano. Sei tu duecento, trecento, quattrocento o mille anni fa, ma sei sempre tu. Perché colui che ha cantato le prime parole era figlio di qualcuno, di qualche posto, di qualche luogo; allora, se ritrovi tutto ciò, tu sei figlio di qualcuno. Se non lo ritrovi, non sei il figlio di qualcuno; sei separato, sterile, infecondo 10.
Nel 1986, il progetto veniva così dettagliato: «Il Dramma oggettivo rimanda a quegli elementi degli antichi rituali di varie culture del mondo che hanno un preciso e di conseguenza oggettivo impatto sui partecipanti, a prescindere dall’esclusivo significato teologico e simbolico. L’intenzione di Grotowski è isolare e studiare taluni elementi dei movimenti performativi, danze, canti, formule magiche, strutture linguistiche, ritmi e modalità spaziali. Tali elementi sono studiati tramite un processo di distillazione dal complesso attraverso il semplice e attraverso l’individuazione degli elementi»11.
La differenza con Il teatro delle fonti (che aveva impegnato Grotowski all’incirca dal 1976-77) è che il primo progetto si era interessato di «ciò che precede le differenze», mentre la nuova ricerca si concentrava «sulle forme sviluppate di certe tecniche tradizionali», non per produrne una sintesi, «bensì per saggiare l’efficacia di precisi elementi tecnici allorché vengono applicati in contesti differenti da quelli della loro nascita»12. Rispetto al Parateatro che Grotowski aveva elaborato negli anni Settanta, a questo punto, ritorna soprattutto una forte enfasi sull’«abilità tecnica» nell’esecuzione performativa, che era stata prefigurata nel Teatro delle fonti e, retrospettivamente, costituiva il nucleo dell’antica attività teatrale grotowskiana 13: «I cattivi artisti parlano di rivolta, i veri artisti fanno la rivolta. […] La vera rivolta nell’arte è ostinata, competente, mai dilettante» 14.
Grotowski non ha nulla contro chi continua a rivolgere al pubblico le proprie performances, ma teme profondamente l’esibizionismo-dilettantismo come la «vendita» (selling) del prodotto, che snatura l’essenziale carattere di «comunione»
(sharing), donde la necessità di aprirsi – su una linea impalpabilmente stanislavskiana – alle energie primarie che possano emergere da differenti tradizioni culturali, non in termini d’imitazione, ma alla ricerca di una nuova credibile «condivisione»15. Per il resto, Grotowski ritiene che «l’arte è sempre stata lo sforzo di confrontarsi con l’insufficienza», e che, per tale dato di fatto, «essa è sempre complementare alla realtà sociale. Non focalizziamoci su una cosa limitata come il teatro. Il teatro è tutti i fenomeni attorno al teatro, l’intera cultura. Possiamo utilizzare la parola teatro come possiamo abolirla»16.
L’attacco al dilettantismo, prima concepito come complementare al professionismo,
suona in qualche modo come sconfessione degli elementi vitalistici e genericamente esistenziali scatenati dal Parateatro, dilaganti nell’orizzontalità dell’esperienza umana, ma difficili da organizzare sul rigoroso asse verticale della ricerca su sé medesimi. Tornando quindi alla disciplina professionistica del suo laboratorio teatrale, ma senza caricarsi dell’immediata problematica della rappresentazione, in Grotowski, adesso, tutto si sublima e si risolve solo ed esclusivamente, si direbbe, nella dimensione della prova, mentre, in filigrana, appare sempre in gioco una sostanziale radicalizzazione della ricerca di Stanislavskij ovvero il rifiuto della rappresentazione come illusione e interpretazione (fin nella performance non necessariamente rappresentativa) e la conseguente concentrazione su azioni fisiche che costituiscano un fare di vera presenza energetica del performer.
L’esperienza di Stanislavskij appare più che mai il sottotesto della ricerca di Grotowski: uno dei suoi collaboratori a Irvine, il balinese I Wayan Lendra, ricorda infatti che, speculando attorno al fenomeno della trance haitiana, Grotowski era giunto a paragonarla «al modo di essere di un potente attore, la cui “presenza” commuove profondamente gli spettatori» ed appare assorbente rispetto al contesto. In fondo, Grotowski era alla ricerca di «un’arte organica, un fenomeno generato non dall’intenzione [del performer] di “mostrare”, ma dalla sua onesta e sincera motivazione a “fare” quel che sta facendo»17.
Ci sono una serie di termini che ora affiorano determinanti nel vocabolario di lavoro di Grotowski: «alertness» (vigilanza) e «awareness» (consapevolezza). «Awareness vuol dire la coscienza che non è legata al linguaggio (alla macchina per pensare), ma alla Presenza»; si potrebbe ulteriormente parlare di una passività partecipante dell’intelletto nei confronti del corpo18. Con il rispetto dell’ambiente naturale e soprattutto con il non nuovo esercizio del silenzio (che implicava anche
che si evitassero rumori nel corso delle azioni nell’area di lavoro), riducendo quindi la consueta interazione sociale, si può diventare vigili ovvero creare «la consapevolezza di essere in un ambiente, di regolare la mente attraverso la silenziosa autoosservazione. […] Questo ci permetteva di sviluppare» – riferisce I Wayan Lendra – «un accordo reciproco, fra il gruppo e l’ambiente che ci circondava, avvertendone la presenza o le azioni. Ciò ci permetteva di sospendere il giudizio sulle persone e le situazioni e appunto essere, fare e osservare»19.
Grotowski afferma inoltre che esistono due poli, quello dell’istinto e quello della coscienza; nella vita quotidiana tendiamo a collocarci nel mezzo, non essendo né completamente animali né completamente umani: «Ma nelle vere tecniche tradizionali e in ogni vera “arte performativa”, si tengono contemporaneamente i due poli estremi. Vuol dire “essere nel principio”, “stare in piedi nel principio”. Il principio è tutta la vostra natura originale, presente ora, qui. La vostra natura originale in tutti i suoi aspetti: divini o animali, istintuali, passionali. Ma allo stesso tempo dovete vigilare con la vostra coscienza. E più siete “nel principio” più dovete “stare in piedi”. È la consapevolezza vigile che fa l’uomo (clowiek). È questa tensione tra i due poli a dare una contraddittoria e misteriosa pienezza»20. Grotowski indica in tal modo la prospettiva di una verticalità che, agli estremi, congiunga, fondendole in una tensione viva, riconosciute radici e una pregnante presenza umana, conferendo all’essere una sorta di trasparenza e di totalità energetica.
2. Nel Dramma oggettivo si direbbe soprattutto in gioco la creazione di «un etnodramma», dove «è una persona che agisce, con una canzone e da sola», rifacendosi a un’origine. Fondamentale nel processo è il montaggio della linea delle piccole azioni fisiche, nella quale si può intervenire sia per eliminazioni sia per inserimenti: «Dovete decidere: che cosa è il fiume e che cosa è il battello? Se il fiume è la canzone e le azioni fisiche il battello, allora evidentemente il fiume non deve essere interrotto – dunque la canzone non deve arrestarsi ma modulare le azioni fisiche. Molto più spesso però è valido il contrario: le azioni fisiche sono il fiume e modulano la maniera di cantare. Dovete sapere che scelta fate»21.
Fu quindi nell’ambito del Dramma oggettivo che si fissò in termini determinanti l’attenzione di Grotowski sulle antiche canzoni vibratorie, nonché su talune modalità di esercizio performativo, che restano importanti nella sua estrema fase di ricerca. Fra queste, vanno ricordati i cosiddetti Mistery Plays e Motions. I Mystery Plays partivano da un canto molto antico, che sgorgava dall’infanzia del performer, presentandosi come «brevi pezzi individuali con una struttura ripetibile, come delle
mini-presentazioni fatte da un solo attore. Al suo livello più alto questa mini-presentazione sarebbe stata una rivelazione di sé, chiara come un cristallo»22. Motions era invece un esercizio praticato all’alba o al tramonto, due atmosfere cui i partecipanti non dovevano tuttavia rispondere emozionalmente, ma giusto con l’osservazione e, in tal modo, sollecitando «vigilanza e consapevolezza degli impulsi fisici»23.
Nella descrizione di I Wayan Lendra, Motions è essenzialmente un esercizio da farsi in piedi e in gruppo, lento e faticoso, i cui partecipanti si collocano all’interno di una formazione a diamante, scaglionati fra loro e compiendo dei movimenti che hanno rapporto con sette direzioni: est, ovest, nord, sud, zenit, nadir e centro.
I corpi si atteggiano secondo una «primal position» che li rende vigili, pronti all’azione, e che richiama la posizione agem della danza balinese, mentre «gli occhi vedono in maniera panoramica» e «le orecchie debbono percepire tutti i suoni in una volta». Non bisogna reagire a ciò che si vede e si ascolta, e neppure ai pensieri che, nel corso dell’esercizio, affiorano perché «il cervello comincia a parlare»: «Quando i movimenti sono effettuati come previsto, aiutano il corpo a generare l’innata potenza fisica», il cui risveglio, ai fini dell’«incremento delle nostre consapevolezza,sensitività e percezione», attraverso il transito dell’energia lungo la spina dorsale, è il principale obiettivo di Grotowski. «Se il cervello non riesce a sorvegliare il corpo, non riesce a osservare i pensieri, e reagisce emozionalmente a ciò che gli occhi vedono e le orecchie odono, l’energia interna non si manifesterà». Invece, dopo ogni sessione di Motions, bisognerebbe avvertire nel corpo «la sensazione di energia distillata e di unitarietà»24.
Il regista Federico Tiezzi assiste a Motions a Pontedera alla fine degli anni Ottanta e, paragonando l’evento ai Mouvements di Gurdjieff25, osserva: «Ho trovato in quegli esercizi un processo molto intenso con cui l’allievo (l’attore?) ritrova la necessità di spingere il corpo a una percezione insieme sensibile (soggettiva) e oggettiva in un processo attraverso il quale l’allievo (l’attore?) è in grado di penetrare attraverso il velo della propria personalità, arrivando aldilà delle proprie associazioni mentali e divenendo consapevole delle forze che agiscono dietro lo schermo della sua normale consapevolezza. Una specie di mediazione dove si esplora il nesso (di derivazione yoga) che esiste tra meditazione, tensione corporea e respirazione».Tiezzi conclude: «Motions sono esercizi bellissimi che inducono a un forte stato di tensione psichica lo spettatore»26, facendo subito lievitare l’equivoco (o l’ambiguità?) che ricorre sovente nell’estrema fase del lavoro di Grotowski fra manifestazione di pura performance e percezione estetica da parte di qualcuno che si percepisce comunque come spettatore, quasi che perfezione e disciplina attive vengano a creare un fatale nesso con le categorie compositive di un’arte caratterizzata da una riconoscibile armonia. Si tenga comunque presente che già nel caso dei Mouvements di Gurdjieff «la bellezza delle posture non mira[va] ad alcuna soddisfazione estetica, anzi, aiuta[va] a liberare energie prigioniere»27, e si aggiunga che le danze gurdjieffiane, in quanto finalizzate al personale decondizionamento di ogni routine fisica o mentale – proprio come le performances grotowskiane – erano più importanti per chi le realizzava che per chi vi assisteva.
Il problematico diario di Philip Winterbottom (cui Schechner tende a dare un certo credito) racconterebbe in dettaglio il lavoro di Grotowski a Irvine fra il gennaio del 1984 e l’aprile del 1985, ma, essendo stato contestato dallo stesso maestro polacco 28, sarà giocoforza limitarci a citarne solo alcune sommarie indicazioni verificabili anche incrociando altre fonti. Precisione, concentrazione e nessuna limitazione di tempo erano la regola degli esercizi che venivano spesso eseguiti di notte. Grotowski invitava gli attuanti a «osservare il proprio respiro e quanto accade internamente. A osservare, inspirando, il mondo esterno e, espirando, quello interno, senza identificarsi. Osservare l’interno come fosse l’esterno». Del lavoro non si doveva parlare, bisognava conservarlo se mai come una ricchezza interiore. Per il resto, Grotowski restava nemico di ogni forma d’«isteria» attoriale e «diceva che si dovevano osservare gli impulsi ma non cedere ad essi. La frizione provocata dal controllo e dall’impulso di mantenere il contatto è acting. […] Una delle principali ricerche di Grotowski era relativa a dove fosse “la vita”» 29.
Nel 1984, il ventiduenne Thomas Richards (americano, con antenati giamaicani), dopo un seminario con l’attore Ryszard Cieslak a Yale, volle incontrare a Irvine, in un altro seminario del ciclo del Teatro oggettivo, anche Grotowski, comprendendo cosa fosse un’«improvvisazione all’interno di una struttura», rifacendosi all’esempio del primo jazz, nel quale gli interventi dei musicisti erano intessuti a partire da una melodia di base, che diventava la loro struttura con la quale restavano in relazione. Lavorando su questo, il maestro polacco era ancora una volta intento a creare l’equilibrio d’una forma d’azione scenica muovendo dal conflitto tra forze contrarie: «PRECISIONE/FORMA – FLUSSO DELLA VITA»30. Esattamente in questo periodo, 1985-86, Grotowski sente sorgere in sé l’urgenza della «trasmissione» della propria esperienza che passerà per l’appunto progressivamente a Thomas Richards 31.
Anche Jan Kott visitò Grotowski a Irvine, più o meno in questo periodo. Kott era sempre stato guardingo nei confronti del lavoro di Grotowski, cui riconosceva rigore di metodo come ambiguità di approccio metafisico e d’impegno sociale 32, eppure, di fronte a una dimostrazione del Dramma oggettivo, accondiscese a una descrizione inconsuetamente simpatetica. Kott rievoca che Grotowski operava con un gruppetto di otto partecipanti, talvolta di notte, fra un vecchio granaio e una specie di padiglione in stile siberiano (yurta) alla periferia del campus, ma anche nei terreni circostanti e sulla costa. Il lavoro restava per lo più chiuso alla visione degli estranei (con Kott fu ammessa giusto una mezza dozzina d’invitati) giacché, in questa fase, il maestro polacco concentrava la sua ricerca sul performer, considerando lo spettatore una variante casuale.
Nel padiglione, un giovane messicano «incominciò a cantare una canzone nella quale la stessa sequenza di note veniva ripetuta, poi svaniva, poi tornava. Questa cantilena era accompagnata da un passo di danza altrettanto monotono. I ginocchi dell’attore sfregavano uno contro l’altro e le dita dei piedi erano curvate all’interno. A ogni passo, data la posizione del corpo, la testa e le spalle dell’attore si curvavano e si raddrizzavano». L’azione sprigionava una singolare tensione e al primo performer si aggiunsero, sulla stessa linea, gli altri: «Sembrava un serpente che svolgesse le spire» e anche gli spettatori, ipnoticamente, finirono per unirsi a una danza che sintetizzava il dondolio rituale dei Chassidim e l’ultima delle posizioni
della meditazione Zen. Quindi, si uscì nei campi all’aperto: «Su una cunetta di fronte a noi due giovani e la ragazza ripetevano lo stesso passo arcuato, ma restando fermi sul posto. L’uno dopo l’altro si giravano verso i quattro lati e a turno si inchinavano al cielo e alla terra». Kott continua: «Ad un tratto tre cavalli, due bianchi e uno nero, ci passarono davanti. Parevano usciti da un quadro di Gauguin.
Avevano le zampe anteriori fasciate e si muovevano lentamente, a passi brevi, le teste rivolte in basso alla ricerca di ciuffi d’erba, difficili da trovare in quell’arida prateria. Per un momento ci preclusero la vista dei due giovani e della ragazza, le cui teste erano rivolte in basso come quelle dei cavalli. In seguito chiesi a Grotowski se quel momento di grande bellezza fosse stato preparato da lui. “No”, rispose, “l’unico grande direttore è Dio”».
Al crepuscolo, i performers correvano in cerchio di fronte al padiglione, alternando
i ritmi di corsa e cambiando il passo, ma «come legati da un filo invisibile»
e componendo un affascinante «balletto senza musica, astratto e vuoto». A notte
fonda, l’azione continuò nel granaio:
Ora gli attori correvano rasente le pareti. Cambiavano continuamente, ma erano sempre solo in due: l’inseguitore e l’inseguito, un uomo e una donna, o due uomini. Erano nudi, avvolti in bianchi veli che cadevano larghi, con ossa di scheletro tratteggiate a linee spesse. Alla luce delle candele, la cui fiamma ondeggiava come falciata dal vento, ombre gigantesche si muovevano lungo le pareti del granaio.
La sequenza dell’inseguimento si ripeté più volte. E sempre si concludeva con un gesto che significava violenza, assassinio o perdono. Per due volte, quando l’inseguitore ebbe infine afferrato la sua preda umana, la coprì con un velo; dopodiché, per due volte, la creatura cacciata o violata lentamente levò la testa ancora ricoperta dal velo e s’irrigidì in posizione semiseduta…33.
Anche se, in questa fase, Jerzy Grotowski era giunto, con estremo rigore, a definirsi «artigiano del performative» ovvero del «vasto campo delle arti-azioni che
l’uomo fa utilizzando se stesso direttamente come strumento» 34, è ancora una volta ricorrente nel racconto dell’esperienza da parte di Kott la tendenza a dare un
senso di trama e a riconoscere tratti di attorialità e addirittura di costume alla composizione di un evento che o non voleva averne o non riusciva a non averne, quantomeno dal punto di vista di chi vi assisteva.
3. Grotowski era arrivato per la prima volta in Italia, agli albori della sua fortuna internazionale, nel maggio-giugno 1965, a Padova, Milano (al Piccolo Teatro) e Roma con alcuni seminari e la contemporanea pubblicazione del libro di Eugenio Barba Alla ricerca del teatro perduto; nell’estate del 1967, Il principe costante era stato rappresentato sette volte al Festival dei Due Mondi di Spoleto, suscitando «autentica sensazione». Anche quando la Biennale veneziana, nel settembre-novembre 1975 (un periodo in cui Grotowski era aspramente criticato in Polonia), diede ampio spazio al Progetto Speciale del Laboratorio di Wroclaw, con diciannove rappresentazioni di Apocalypsis cum figuris, «Zycie Warszawy» riportò: «La visita di due mesi della compagnia di Grotowski ha messo in ombra ogni altra cosa che sia
stata presentata alla Biennale di Venezia […]. “Ecco la speranza creativa del teatro d’oggi…”, ha scritto “l’Unità”» 35.
A circa un decennio da quest’ultimo evento e in un momento di crisi delle istanze di ricerca avviate negli anni Sessanta-Settanta in campo teatrale, nel 1986, Grotowski accetta l’invito del Centro di Pontedera a stabilirsi in Toscana per fondare un Workcenter (oggi attivo sotto la guida di Thomas Richards) 36:
Per un certo aspetto l’Italia ha scelto me, per l’altro sono io che ho scelto l’Italia. Da anni avevo una sorta di relazione teatrale legata agli stage, alle conoscenze, agli ambienti culturali del paese; qui è molto vivo un certo livello di pensiero teatrale. L’Italia è stato un ideale per il mio tipo di ricerca. È stato Roberto Bacci, direttore del Centro Teatrale di Pontedera con cui da anni ho un rapporto di amicizia artistica, con la mediazione di Carla Pollastrelli che è venuta a trovarmi in America, a propormi di installarmi qui, cioè di avere un posto per un vero lavoro sul mestiere dell’artista performativo e sul suo sviluppo attraverso l’arte37.
«Per la vita teatrale» – affermava Grotowski – «è essenziale una sorta di presenza
assente, un piccolo nucleo, un romitaggio dedito alla ricerca pura, senza scopi produttivi, in grado di spendere tutto il tempo necessario allo svolgersi di un processo organico di lavoro» 38. Ludwik Flaszen ha visto nella creazione del Centro di Pontedera l’impegno di Grotowski non solo verso «il modesto concreto lavoro dell’artigiano», ma anche un ambizioso ritorno alle origini del Teatro Laboratorio: «verso la Metafisica attraverso la cruna dell’Artigianato», tanto più che sostanzialmente la ricerca del maestro polacco finiva per collocarsi proprio nello spazio fra le tecniche del mestiere e una dimensione altra e speculativa. A Pontedera, così, ricongiungendosi all’aurorale periodo di Opole, Grotowski si decentrava come al principio della sua carriera e tornava a riflettere sullo spirito metafisico della danza e dei misteri ellenici 39.
Ciò detto, sarebbe un errore considerare la fase di Pontedera un periodo catacombale,di assoluto isolamento ed eremitaggio. Proprio perché l’abrogazione dellospettatore a favore del testimone (in realtà un ritorno, nel sistema concettuale di Grotowski, più che una novità)40 era puramente funzionale e appariva la conseguenza logica di un processo di lavoro, non l’ostracismo ideologico al mondo del teatro, del quale Grotowski, sui confini, restava comunque ospite, c’era attorno al maestro polacco un consistente fermento di persone e di gruppi41.
Il 13 e il 14 febbraio 1987, si tenne a Pontedera un seminario preliminare e ristretto, di cui Ugo Volli diede un resoconto su “L’Europeo” del 14 marzo. Grotowski parlò del suo esclusivo interesse per il Performer che attinge una condizione in cui non si distinguono più danza, canto, cerimonia e rito: «Lo spettacolo» – dichiarò Grotowski – «nasce quando il rito muore», e se si esaminano degli antichi film relativi alla danza balinese e li si confronta con documentari contemporanei, «le azionidella danza sembrano le stesse, ma hanno cambiato qualità, non sono più cerimonia, sono diventate spettacolo» (fenomeno verificatosi peraltro anche con il vudù haitiano). «Il mio lavoro di oggi non è quello di scoprire delle forme teatrali nuove […]» – asseriva il maestro polacco – «semmai di tornare molto indietro nella storia della civiltà fino a un punto in cui lo spettacolo non era ancora dominante, e di conseguenza le distinzioni dei generi non valevano ancora». Da qui la necessità di non lavorare per un pubblico, evitando concessioni sul fronte del teatro e della recitazione.
Verso la fine degli anni Ottanta, Ugo Volli è ancora fra gli scelti testimoni ammessi a visionare i principali segmenti del lavoro da poco avviato a Pontedera. Grotowski opera in un cascinale di campagna con una ventina di partecipanti e mostra Motions e sequenze di carattere piuttosto classico del suo training, ma anche le due versioni di una performance o, forse meglio, evento (cfr. nota 69): Downstairs Action (condotta da Thomas Richards) e Upstairs Action (condotta da Maud Robart) 42.
Downstairs Action si svolgeva per l’appunto in una sala al pianterreno ed era sviluppata da quattro uomini e una donna di diverse nazionalità che, vestiti di bianco, cantavano «con molta energia canzoni di barbara bellezza e sonorità vagamente africane», compiendo «gesti e atti dal significato misterioso ma di semplice evidenza e necessità». Sulla base di un’antica leggenda mediterranea che risuona solo nei canti e non è quindi illustrata, si sviluppava una suggestiva catena di figurazioni: «Un uomo corre e un altro lo insegue senza rumore. La donna sta in ginocchiodavanti a una candela; qualche tempo dopo lava con le mani tutto il corpo di un giovane che ha danzato a lungo. Delle erbe vengono bruciate, delle penne agitate per l’aria, dei pali metallici percossi. Qualcuno si muove con delle cavigliereche risuonano, altri rispondono con una canzone di ritmo incisivo e ripetuto». Tutto avveniva con concentrazione e precisione assolute, mentre s’intrecciavano impressioni di un coro a cappella con disposizioni crociate e in circolo degli attuanti e lo spazio acquistava «qualità di trasparenza e di vibrazione».
È molto evidente un «carattere rituale e non rappresentativo del fare» 43, che qui
si mostrava come transizione «dal soggettivo all’oggettivo» e s’invertiva «dall’oggettivo al soggettivo»44 nella seconda Action, che si teneva in una sala superiore (upstairs) ed era per contro realizzata da un gruppo di due uomini e sei donne, chelavoravano su frammenti di vudù haitiani piegati e connessi a un mito mediterraneo sulla lotta-iniziazione per la conquista d’una perla custodita da un serpente 45. Anche in questo caso le canzoni avevano «un ritmo e soprattutto una vibrazione argentina straordinaria»:
Le immagini si susseguono con la solennità la pompa la ricchezza di sorprese e la nitidezza di contorni del sogno, o il gusto clamoroso per i segni puri e scoperti di un teatro brechtiano […]. Bandiere, altarini, cortei, dialoghi drammatici, figure travestite inmaniera clamorosa, cattivi truccati con sigaro, gessato e occhiali neri da sceneggiata napoletana, cori angelici di donne stranamente luminose, sfilate di eserciti celesti con bandierein testa, luci di candele sfavillanti, percorsi circolari, parole in un francese creolo di esotica bellezza […]. Non sarà teatro come ci viene ripetuto, anzi ogni “scena” e ogni “personaggio” viene solo dall’immaginario vudù; ma si tratta di un evento di intensa, sconvolgente, necessaria bellezza ed evidenza. C’è una chiarezza solare, una festosità disciplinata e sorgiva in tutta la cerimonia che prende fortissimamente il testimone 46.
«C’è qualcosa di cristallino, in questo», osservava un altro testimone, Federico Tiezzi: «come se, scesi all’interno di un diamante, potessimo misurare con lo sguardo le intersezioni di una struttura, che i millenni hanno compiuto perfetta» 47.
Per vari motivi, in parte anche economici, solo il gruppo Downstairs continuò il suo lavoro a Pontedera e ancor oggi continua a sviluppare versioni affinate e diversificate di Action48, che si è come strutturata, a metà degli anni Novanta, largamentegrazie al contributo creativo di Thomas Richards e al rilevante apporto del performer Mario Biagini. Questa strutturazione di Action è stata descritta da Lisa Wolford 49. L’evocazione vagamente estatica della Wolford (ancora una volta, forse più da spettatrice che da testimone) arriva alla conclusione che, a differenza di Downstairs Action, nella versione maturata, esisterebbe qualche «finestra» che
consente delle interpretazioni da parte dei testimoni, sempre occasionalmente invitati in piccolo numero a un evento, che riconosce loro – diversamente dal passato – uno spazio e quindi una indiretta legittimazione della presenza 50.
Sarà perché – come temeva Grotowski (e l’esempio di Kott dimostra) – uno spettatore, comunque sia, riesce a trasformare inevitabilmente ogni evento in spettacolo51,ma, per Action (e già per Downstairs Action), svariati critici hanno parlato di qualcosa che presentava «montaggio scenico, ruoli e quantomeno un accenno narrativo» 52. La Wolford, pur dichiarando la pochezza descrittiva delle parole e di essersi trovata per l’appunto di fronte a un evento non mimetico, la cui compiutezzaè accessibile solo agli attuanti 53, riesce alla fine a ricostruire una specie di trama relativa al ciclo dell’esistenza (il bambino, il guerriero, il vecchio) in rapportoa una ricerca dell’Origine e al congiungersi del Principio e della Fine (con il ribaltamento del ciclo medesimo). Per ciò che si dipana nella bianca sala dell’evento a opera di quattro uomini e una donna – fra canti di straordinaria intensità(«Non ho mai udito cantare in questo modo prima. […] La risonanza è spaziale, concreta; mi penetra nella pelle in maniera particolare»), evocative azioni fisiche e misteriosi o misterici frammenti di testo «antifonali, salmodianti, incantatori», con, nella sezione finale, l’evocazione di un’ambigua figura cristica di crocifisso – questa trama sarebbe addirittura divisibile in porzioni drammaturgiche con Prologo ed Epilogo 54.
Indubbiamente, Action – a detta di Tadeusz Kornas´ – «tocca gli archetipi e risveglia un’enorme quantità di associazioni di natura addirittura religiosa»:
scorre in modo straordinariamente armonico. Persino un gesto delicato ha una forza sbalorditiva. Ad esempio, quella breve sequenza in cui tutti, uno dopo l’altro, danzano al passo chiamato nel linguaggio voodoo yanvoloo: tutti allo stesso ritmo con le gambe piegate, le dita dei piedi curve, che toccano leggere il pavimento mentre le gambe si spostano in avanti, come se tutto si concentrasse in quel delicato movimento-ritmo, finché all’improvviso, in un attimo, tutti i performers si sparpagliano liberamente in direzioni diverse. Non si erano dati alcun segnale eppure il movimento si è interrotto in ognuno di loro nello stesso istante. Non ho mai visto una tale armonia in teatro. Lo stesso succedeva con i canti.
La sensazione complessiva è quella di assistere alla «creazione di qualcosa di buono. “Buono” nello stesso senso in cui parleremmo di uomo buono»55, e, ancora su questa linea, diversi testimoni hanno avanzato confronti fra Action e la messa nera dell’antico spettacolo del 1969, Apocalypsis cum figuris, che marca il confine dell’impegno teatrale del maestro polacco, parlando di una cantica grotowskiana del Paradiso rispetto all’Inferno. Mateusz Kanabrodzki ha scritto così che «il mondo presentato in Action, a paragone con quello di Apocalypsis, è situato in un punto elevato sopra la terra»56, mentre Leszek Kolankiewicz ha visto in questa performance l’alchemico «coronamento» dell’opera di Grotowski in «struttura cristallina e potente energia» 57.
In una nota del Workcenter, cogliamo vieppiù quanto Action sia opus alchemico decisamente elaborato sui bordi del teatro: «Dal punto di vista degli elementi tecnici, tutto qui è quasi come in un normale lavoro teatrale di lunga durata. Si lavora essenzialmente sui canti, ma si lavora anche sugli impulsi, la partitura delle reazioni, la logica delle più piccole azioni, i modelli arcaici di movimento, la parola, così antica, da essere quasi sempre anonima»58. Di fronte ad Action ciò che colpisce è, dopo tutto, l’intensità dell’azione, ma soprattutto la straordinaria fluidità del corpo-voce dei performers che effettivamente sembra scivolare da un livello energetico rozzo a uno più sfumato o sottile, che si riflette sulla corporeità biologica, e quindi riesce a restituire quell’esperienza, dichiarata da Thomas Richards, di una mente che non manipola più il corpo, ma «conduce» ormai nella sua totalità il performer, come se «la fonte degli impulsi non fosse apparentemente muscolare» 59.
La Wolford ammette, in conclusione, che l’eventuale plot in Action resta comunque
relativo e che il suo fulcro consiste proprio nel processo di verticalità come poderosa e – ripetiamo, aggiungendo – alchemica trasformazione delle energie negli attuanti che ha come conseguenza un’intensificazione della presenza. Permane certo l’impressione di una sorta d’imponderabile interferenza fra teatro e performance (che sono poi «le due estremità dell’ampia catena delle performing arts») 60, ma va anche osservato che, nella fase finale della sua vita, Grotowski propendeva in qualche modo ormai per un pareggiamento fra questi termini: «L’arte come veicolo», affermava, «non è migliore dell’arte come presentazione, assolutamente non lo si deve pensare: è semplicemente un’altra cosa», di fronte alla quale sono inutili giudizi di valore 61.
Ampio il dibattito fra gli studiosi su Action. Marco De Marinis è convinto che, in Action e nell’Arte come veicolo, chi «assiste subisce, oltre all’effetto cinestetico, anche una tipica interferenza sinestetica: arriva a vedere il canto e ad ascoltare la danza», congiungendo in tal modo idealmente la ricerca di Grotowski con quella di Ejzenstejn e Artaud 62. Franco Ruffini, a proposito di Action e del suo porre il problema della distinzione fra spettatore e testimone, ha acutamente osservato che, in buona sostanza, «una differenza non sta in chi guarda ma in ciò che viene guardato ». Infatti, se Action viene realizzata «“per” qualcuno», costui «ne è spettatore», mentre
se semplicemente è fatt[a] “di fronte” a qualcuno, quel qualcuno ne è testimone. Dunque, oggettivamente, Action – che è fatta per i doers, per coloro che la fanno – non prevede spettatori, anche se molti che guardano reagiscono soggettivamente – e legittimamente – come tali. Il testimone non è opposto allo spettatore; ne è una dimensione strutturale e permanente. Tra spettacolo e spettatore può sempre, “può”, crearsi uno spazio sottratto alla logica di domanda e offerta: in cui lo spettacolo non si offre allo spettatore ma semplicemente si pone davanti a lui; e in cui, dall’altra parte, lo spettatore non guarda uno spettacolo ma semplicemente attraverso lo spettacolo che gli si pone davanti guarda (in) se stesso.
Così, lo spettacolo può diventare per lo spettatore «strumento di conoscenza attraverso il piacere» e Action dimostrerebbe, anzi, che è possibile l’esperienza di una «coesistenza» di base nella persona che guarda dello spettatore e del testimone 63.
Al di là di ogni considerazione e delle impressioni soggettive, l’impatto di Action appare inquadrabile all’insegna delle dichiarazioni grotowskiane de Il Performer (cfr. § 4), poiché l’intensità che passa fra l’attuante e il suo eventuale testimone si struttura sull’effettiva circostanza che «il Performer è pontifex, facitore di ponti». Grotowski fa ritenere pertanto che ciò che essenzialmente avviene – con un peculiare sfocamento (e sfondamento) del concetto stanislavskiano di reminiscenza 64 – sia qualcosa che indicheremmo come il disvelamento-eruzione da parte di e nell’attuante di «una corporeità antica alla quale si è collegati da una relazione ancestrale forte», che si verifica – a nostro avviso – molto più attendibilmente e generalmente, per l’impressione di una perseguita «precisione» («Don’t improvise, please!») e semplicità-essenzialità dell’evento rigorosamente strutturato 65.
Insomma, ci si trova di fronte a un’incredibile, raffinatissima, distillazione-modulazione del gesto e del suono finalizzati a un potente (comunque contagioso) rilascio di energia corporea e – aggiungeremmo – persino morale in senso lato, perché infine l’attuazione del processo di verticalità ci suggerisce potenzialità o «mezzi diversi» d’approccio all’esistenza, magari «scalando montagne, mettendosi al servizio di altra gente, facendo il genitore o il barbone»; «Qual è il tuo modo?», chiedeva Grotowski e continua a chiedere Action66.
Action appare quindi – più che un ritrovamento del «rituale primario» o addirittura dell’«origine» universale 67 – un exemplum aperto, che si manifesta attraverso un miracolo di assoluto artigianato applicato all’economia energetica del corpo umano, meglio, alla commutazione alchemica delle sue energie, sul limite dell’affiorare dell’espressività, fra impulso e azione. Partito dall’idea di realizzare un laboratorio teatrale che però condividesse l’autorevolezza scientifica di quello del grande fisico Niels Bohr, Grotowski approda infine a uno Stanislavskij piegato all’alchimia (pseudoscienza certo più congrua della fisica per i pur sempre sfuggenti codici artistici) dell’immediata condensazione dell’impulso interiore in reazione esteriore, che distilla il flusso delle associazioni del corpo-memoria, che disinnesca la mente, mentre il corpo diviene azione pura, con una conseguente pratica della «trasmutazione della natura umana» 68.
È chiaro che resta possibile e implicita una scelta di posizione e di visione (al di là dell’intenzione dei performers) in chi è chiamato ad assistere ad Action e ciò rende infine questo straordinario prodotto – o, come dicono Richards e Biagini, in fondo, «not a performance, not a theatre piece»69 – un’opera aperta e un capolavoro della moderna espressività astratta, a qualunque livello delle arti (o non-arti) lo si voglia porre e considerare. Certo, come scrive Antonio Attisani: «una rivoluzione percettiva», che sfida a spiegare «ciò che accade tra un tornado di poesia orale e chi ne è investito» 70.
4. A Pontedera, Grotowski sviluppa una nuova fase, forse più artigianale, del suo lavoro, sempre più strettamente imperniato sulla performance applicata agli antichi canti vibratori africani e afro-caraibici come strumenti (puntualizza Richards) «per realizzare un lavoro su se stessi» e al fine di «aiutare l’organismo in un processo che si può definire una trasformazione di energia»71: L’arte come veicolo di una più elevata ricerca interiore, secondo una definizione data (in realtà ripetuta) da Peter Brook 72, ma altresì indicata come Arti rituali. L’arte come veicolo è del resto
distinta dall’arte della (rap)-presentazione teatrale e si rifà esplicitamente a quel lavoro su se stessi tipico delle tradizioni nelle quali «l’attenzione per l’arte va di pari
passo con l’approccio all’interiorità dell’essere umano»73. Due scritti, invero alquanto compositi, di Grotowski vanno ripresi per orientarci in questo ulteriore ambizioso campo di ricerca: il primo è il rapsodico Il Performer (1987-88)74; il secondo il più lineare Dalla compagnia teatrale all’arte come veicolo (1989-90), che
può essere considerato il testamento del maestro polacco 75.
In Tu es le fils de quelqu’un, Grotowski aveva detto: «Non si tratta di recitare la parte di qualcuno che tu non sei. Così in tutto questo lavoro si procede sempre di più verso il principio, sempre di più verso “stare in piedi nel principio” e quando si è nel non dilettantismo allora è la questione di te – dell’uomo (clowiek) – che si apre» 76. Il teatro d’interpretazione è orizzontalità, la ricerca performativa è verticalità, un mettersi in piedi che inevitabilmente mira verso l’alto. Questo è il preludio a Il Performer, dove il Performer («con la maiuscola») assume i tratti dureriani di un Cavaliere fra la Morte e il Diavolo, perché «è un uomo d’azione» e naturalmente «non è qualcuno che fa la parte di un altro. È l’attuante, il prete, il guerriero: è al di fuori dei generi artistici» 77. Il rituale viene presentato, a questo punto, come «performance, un’azione compiuta, un atto», mentre «il rituale degenerato è uno show». Grotowski ribadisce del resto la sua intenzione di non impegnarsi a «scoprire qualcosa di nuovo, ma qualcosa di dimenticato. Una cosa talmente vecchia che tutte le distinzioni tra generi artistici non sono più valide». «L’uomo di conoscenza (clowiek poznania)» – continua Grotowski (estremizzando la ricerca di Stanislavskij dell’intangibile attraverso delle pratiche) – «dispone del doing, del fare e non di idee o teorie» ovvero, si direbbe, non di una filosofia razionalistica, ma di una pratica iniziatica, giacché «la conoscenza è questione di fare» e il teacher del Performer pone l’«apprendista» di fronte a uno scioglimento dello sforzo di capire nell’azione. Appellandosi sostanzialmente ai capisaldi della conoscenza tradizionale (da Castaneda a Gurdjieff), Grotowski privilegia una ricerca sull’«essenza» dell’uomo come «esserità», che rifiuta il corrente approccio sociologico alla vita 78.
Certo bisogna crederci che nell’uomo esista un’«esserità», qualche autenticità in certo modo tangibile o qualche vitale «essenza», per di più vagamente monistica, distillabile dalle culture, ma se non si accetta, in via preliminare, un approccio sperimentalmente aperto e plurale alla dimensione attuativa grotowskiana; se non si accetta l’esistenza non della Ragione, ma di altre ragioni e quindi, al di là di tutto, di una intrinseca differenziazione delle culture, e persino delle loro «anatomie», è perfettamente inutile cercare di penetrare nel mondo del maestro polacco e si arriva solo a sgangherate quanto noiose accuse di fumosità e misticismo reazionario. Così – pur indifferenti, per indole e formazione, alle lusinghe della conoscenza iniziatica e tradizionale, e non poco disorientati di fronte all’abbacinante discorso grotowskiano, che arriva a dare estremo rilievo sì all’idea yoga dei centri di energia (chakras), ma pure a testi del XVII secolo (come quello del Gichtel), cercando ossessivamente un’unificazione culturale dalla «terminologia non prefissata», tanto vaga quanto ambiziosa di risultati precisi79 – non ci sogneremmo mai di usare la definizione di «fascismo estetico», tirata fuori da qualche critico 80.
Noteremo anzi che Grotowski una fondazione antropologica speculativa e scientifica del suo discorso in fondo non l’ha mai cercata e forse l’avrebbe ritenuta restrittiva e comunque antitetica alla dimensione conoscitiva avventurosa (quasi alla Indiana Jones, diremmo senza alcuna ombra d’ironia) della sua peculiare prassi81, che, nella guizzante genialità e paradossalità (e indifferenza razionalistica), rivela soprattutto una mai estinta componente creativa o artistica, che non esclude ovviamente la precisione e l’assoluto rigore artigianali. «Nec ridere, nec lugere, nec detestari sed intelligere» ci ha insegnato Spinoza e non dobbiamo cadere nel trabocchetto di contrapporre un razionalismo monodimensionale a un’esperienza che in partenza non lo riconosce nei suoi indici di riferimento82, e, se vogliamo proprio valutare, sarà opportuno limitarci – un po’ come si fa con l’omeopatia – a dichiarare: «It seems absurd, but it’s working». Così, infatti, afferma d’impulso lo stesso Thomas Richards, considerando il lavoro compiuto, all’inseguimento dei più singolari legami transculturali fra lontanissime tradizioni a stretto contatto con Grotowski83, il quale, a sua volta, ci ha assai generosamente insegnato: «Se volete penetrare un altro mondo, se volete comprendere un altro uomo, un’altra tradizione, dovete ammettere che la vostra visione del mondo è netta per voi, e che non è necessariamente la sola» 84.
Bene, l’effetto concreto e verificabile – working, per l’appunto – delle straordinarie dichiarazioni contenute ne Il Performer (relative alla captazione da parte dell’attuante- guerriero 85 del «processo» nell’«osmosi corpo-e-essenza fino ad attingere una corporeità «non-resistente, quasi trasparente», per cui «tutto è leggero, tutto è evidente» nel suo combaciare con il processo, nel suo divenire, più che organismo atletico, «un organismo-canale attraverso cui le energie circolano», realizzando la quadratura del cerchio di una passività che è ricezione e di un’attività che è presenza) 86 può essere considerato proprio Action. Action è la realizzazione più individuata dell’ultima fase grotowskiana, uno straordinario evento, frutto di questi presupposti iniziatici, che sa trasformare nella sapienza tangibile di un ricchissimo artigianato, le cui basi sono nell’antico esercizio delle prove con e sull’attore, nella straordinaria conoscenza delle più fini potenzialità del corpo fra impulso ed espressione, insomma dentro quel territorio del lavoro teatrale che il maestro polacco ha poi dilatato, meritoriamente, audacemente, spostandone i confini sino a renderli quasi indefinibili.
In Dalla compagnia teatrale all’arte come veicolo, Grotowski sostiene che, nel teatro, «abbiamo un anello visibile – lo spettacolo – e un altro quasi invisibile: le prove», intese «per l’attore [come] un terreno in cui scoprire se stesso». Si costituisce così una catena: «l’anello spettacolo, l’anello-prova per lo spettacolo, l’anello-prova non del tutto per lo spettacolo…»; a un’estremità di questa catena c’è L’arte come veicolo, che «non cerca di creare il montaggio nella percezione degli spettatori, ma negli artisti che agiscono», qualcosa che è già esistito con gli antichi Misteri. Nonostante il recupero del rigore operativo, non c’è però alcun ritorno a un’arte come rappresentazione: è solo «l’altra estremità della stessa catena» 87.
Del resto, «nell’arte come veicolo tutto è quasi come nelle performing arts; lavoriamo sul canto, sugli impulsi, sulle forme del movimento, appaiono anche motivi testuali. E tutto riducendosi allo stretto necessario, fino a creare una struttura altrettanto precisa e finita» come in Action. La differenza fra questo lavoro e lo spettacolo sta nel «montaggio»: «Nello spettacolo la sede del montaggio è nello spettatore; nell’arte come veicolo la sede del montaggio è negli attuanti, negli artisti che agiscono» 88. Per Grotowski – sappiamo – nell’Arte come veicolo è in gioco la verticalità: «il fenomeno è d’ordine energetico: energie pesanti ma organiche (legate alle forze della vita, agli istinti, alla sensualità) e altre energie, più sottili. La questione della verticalità significa passare da un livello cosiddetto grossolano – in un certo senso si potrebbe dire “quotidiano” – a un livello energetico più sottile o addirittura verso la higher connection» (riportabile al divino, per intenderci) e «non si tratta di rinunciare a una parte della nostra natura; tutto deve tenere il suo posto naturale: il corpo, il cuore, la testa, qualcosa che sta “sotto i nostri piedi” e qualcosa che sta “sopra la testa”. Tutto come una linea verticale, e questa verticalità deve essere tesa fra l’organicità e the awareness. Awareness, vuol dire la coscienza che non è legata al linguaggio (alla macchina per pensare), ma alla Presenza» 89.
Lavorare sugli antichi canti rituali spinge a sceverare «la differenza fra la melodia e le qualità vibratorie»; i canti sono «strumenti della verticalità». In particolare, i canti afro-caraibici sono «canto-corpo», strettamente associati cioè agli impulsi e alle piccole azioni che attraversano il corpo «poiché gli impulsi che scorrono nel corpo sono proprio quelli che portano quel canto». Il corpo non deve, in questo lavoro, attingere particolari atletismi, ma presentarsi flessibile e vuoto, un vero «canale per le energie», in equilibrio fra rigore e spontaneità, in un’azione strutturata. Tutto ciò, che ha dichiarata affinità con una dimensione misterica, mantiene tuttavia «una relazione viva nel campo del teatro, attraverso la sola presenza dei colleghi della professione» 90.
5. Grotowski è morto a Pontedera il 14 gennaio 1999 (91).
I giornali registrarono la notizia della sua morte con un certo rilievo, ma non con il rilievo dovuto alla statura del personaggio: per il teatro, se ne andava una specie di Kant o di Heidegger. Per il teatro, appunto, vale a dire per qualcosa sempre più sacrificato nel sistema delle arti e della comunicazione estetica, sempre più assediato dalla televisione e da altri media. In questa derelitta regione delle arti, Grotowski si era collocato immancabilmente ai confini – agilmente dentro e fuori di essi cioè – come un colossale provocatore, eccentrico e prezioso: nientemeno che «l’orefice capace di individuare e di annodare, all’interno dell’individuo, nell’interfaccia fra il cosiddetto fisico e il cosiddetto spirituale, le relazioni fra l’impulso e l’azione» 92. L’epitaffio più penetrante, nel maggio del ’98, vergato in forma di lettera poco prima della morte del maestro polacco, fu forse quello dell’antico discepolo (ma solo nel senso, e nella differenza, in cui Mejerchol’d – se non addirittura Brecht – poteva esserlo nei confronti di Stanislavskij), Eugenio Barba. Grotowski, ammalato, non era in grado di presenziare al conferimento di un premiotributatogli dalla Regione Toscana, sicché Barba scrisse:
Molte volte, per quasi quarant’anni, da quando ci siamo incontrati ancora ventenni, mi sono chiesto che cosa tu mi stessi indicando. Spesso le tue orme diventavano confuse e si perdevano, ma era un perdersi che suggeriva oscuramente una direzione. La direzione è sempre stata la mia. Le orme sono tue.
Lo sappiamo bene: hai agito nel teatro, come quei cavalieri nomadi che trafiggevano con una sola freccia due cicogne nere. Sei stato l’uomo del vento e dei fulmini e hai spalancato altre porte alla nostra professione. Attraversando quelle porte, il mestiere dell’attore veniva risucchiato violentemente in altre dimensioni, sradicato perfino dalla rappresentazione e dall’arte e proiettato in una nuova provincia di un paese spirituale perduto. Il rigore e la tenacia, tutto il sapere sottile che serve all’attore per essere efficace ai sensi e allo spirito dello spettatore, tu li hai trasmutati nella solitaria disciplina di lavoro dell’individuo su di sé, per scalarsi, montagna e alpinista, vetta e baratro insieme.
Adesso, dalle contrade del teatro che abito, la tua prossimità lontana mi appare come un airone bianco che vola in una notte di plenilunio.
La superstizione dei numeri ci cattura. Ci sembra che il 2000 sia una soglia. Oltre quella soglia, forse, una parte del teatro sarà quel che tu, nella tua solitudine mai solitaria, ci hai indicato 93.
I metodi e i risultati di Grotowski, all’incrocio fra le tecniche yoga, la prassi scenica
e l’antropologia, possono essere ampiamente discussi. Innegabili l’imprevedibilità intellettuale del maestro, il fascino e l’onestà della sua interrogazione di fondo sull’io 94, se intesa come ricerca, come processo drammatico, e non come rinvenimento di qualche essenza. Meno convinti si può restare dall’individuazione, pur sempre casuale e intuitiva, delle «sorgenti» (anche quando siano soltanto «la ragione organica di un fare») 95 cui attingere al fine di un «risveglio», la cui sola evocazione ricorda infine qualcosa di così tradizionalmente iniziatico (o polacco?) da risultare forse incomunicabile a molti. Ferme queste riserve e altre di minor conto, va aggiunto che la continuità e la forza dell’impegno – morale forse, nonché artistico – di Grotowski verso una Scena (in senso lato) o un evento di Presenza pregnante e alternativa all’illusione e alla mera finzione del recitare (ancora in senso lato) restano ammirevoli e imponenti e – come ha detto Mario Biagini – marcano un radicale superamento della stessa nobile spinta stanislavskiana a rendere il lavoro dell’attore qualcosa che «non è vuoto né frutto di finzione», dischiudendo laricca prospettiva esistenziale di un oltre, di «ciò che è più pieno della vita di tutti i giorni» 96.
Franco Perrelli
1. J. Grotowski, Tu es le fils de quelqu’un, in Opere e sentieri, II. Jerzy Grotowski. Testi 1968-1998, a cura di A. Attisani, M. Biagini, Bulzoni, Roma 2007, pp. 70-1.
2. Il saggio di L. Wolford, Grotowski’s Objective Drama Research, University Press of Mississippi, Jackson 1966, riassume e analizza l’intero progetto, ma partendo di fatto da esperienze dell’autrice fra il 1989 e il 1992, sviluppate soprattutto con James Slowiak (p. 103).
3. Z. Osimski, Grotowski Blazes the Trails. From Objective Drama to Art as Vehicle, in The Grotowski Sourcebook, ed. by R. Schechner, L. Wolford, Routledge, London-New York 2001 (II ed.), pp. 385-6.
Anche la Wolford accetta un’origine gurdjieffiana del concetto e precisa vieppiù che oggettivo «designa un tipo di tecnica performativa che ha un determinabile effetto sullo stato dell’energia del partecipante,analogo all’impatto oggettivo del rituale integro», mentre dramma «si riferisce non solo alla messa in atto di materiale testuale […], ma all’impulso performativo in tutte le sue forme». La definizione di «dramma oggettivo» sarebbe anche rintracciabile negli scritti di Julius Osterwa, animatore dello storico gruppo polacco di Reduta e modello di Grotowski (cfr. Wolford, Grotowski’s Objective Drama, cit., pp. 9, 113-4).
4. Sul Teatro delle fonti, cfr. J. Grotowski, Holiday e Teatro delle Fonti, a cura di C. Pollastrelli, La Casa Usher, Firenze 2006; R. M. Molinari, Diario dal Teatro delle Fonti. Polonia 1980, La Casa Usher, Firenze 2006.
5. Del resto, affermerà Grotowski nel 1995: «Io non ho imitato Stanislavskij, ho cercato quello che era possibile dopo» (Ciò che resterà dopo di me. Intervista a cura di Jean-Pierre Thibaudat, in Opere e sentieri, II. Jerzy Grotowski. Testi 1968-1998, cit., p. 118).
6. R. Schechner, Exoduction, in Schechner, Wolford (eds.), The Grotowski Sourcebook, cit., pp. 465, 475.
7. R. Schechner, Between Theatre and Anthropology, University of Pennsylvania Press, Philadelphia 1985, p. 255.
8. È indubbio che delle varie esplorazioni antropologiche di Grotowski negli anni Ottanta quelle condotte a Haiti e attorno alla sua cultura assumono per il suo lavoro una speciale importanza e suggestione (che sembra peraltro persistente nelle varie elaborazioni di Action).
9. Nel 1961, Grotowski aveva allestito Gli avi di Adam Mickiewicz (1798-1855), che consegna al teatro nazionale polacco l’idea fondativa di una certa equivalenza fra il rituale pagano della festa dei morti e la radice dionisiaca della tragedia greca. Cfr. in merito Teatro e festa dei morti. “Gli avi” di Mickiewicz e la tradizione teatrale in Polonia, in “Teatro e Storia”, XV, 2000, 22.
10. Grotowski, Tu es le fils de quelqu’un, cit., pp. 79-80. Qui tornava in gioco una costante percezione di Grotowski della propria posizione artistica, cioè del proprio non appartenere in fondo a una banale avanguardia. Del resto, già in un’intervista del 1969 a Margaret Croyden, il maestro polacco aveva dichiarato: «Sento che non si deve tendere all’arte d’avanguardia, ma all’arte… Creare è impossibile se distruggiamo il ponte con il passato. Miti o archetipi ci legano al passato. Il passato è la sorgente del nostro lavoro creativo. […] siamo il risultato di qualcosa di più ampio – di una storia più grande della nostra personale – di una storia interindividuale e interpersonale» (M. Croyden, “I Said Yes to the Past”. Interview with Grotowski, in Schechner, Wolford (eds.), The Grotowski Sourcebook, cit., p. 86).
11. Citato in Wolford, Grotowski’s Objective Drama, cit., p. 9.
12. L. Wolford, Introduction. Objective, 1983-86, in Schechner, Wolford (eds.), The Grotowski Sourcebook, cit., p. 288. Sull’evoluzione generale del lavoro grotowskiano, cfr. i recenti volumi F. Perrelli, I maestri della ricerca teatrale. Il Living, Grotowski, Barba e Brook, Laterza, Roma-Bari 2007; J. Slowiak, J. Cuesta, Jerzy Grotowski, Routledge, London-New York 2007.
13. Wolford, Grotowski’s Objective Drama, cit., p. 134. Noteremo incidentalmente che un ulteriore, per quanto sottile, elemento di continuità con il suo passato teatrale – evidenziato nel 1995 dallo stesso Grotowski – è che spettacoli come Akropolis o Il principe costante erano stati in qualche modo «cantati» ovvero avevano tratto da un certa forma di salmodia profonde suggestioni espressive (Grotowski, Ciò che resterà, cit., p. 115).
14. Grotowski, Tu es le fils de quelqu’un, cit., pp. 67-8. In questo scritto estremamente significativo, Grotowski enfatizza che per «lavorare sull’improvvisazione bisogna avere una competenza spietata. Non è la buona volontà a salvare il lavoro, ma la maestria. Evidentemente, quando c’è la maestria, si pone il problema del cuore. Il cuore senza maestria, è merda. Quando c’è la maestria, dobbiamo fare fronte al cuore e allo spirito». Grotowski riteneva anzi che l’intera controcultura americana (e verosimilmente anche il suo teatro) fosse finita non per mancanza di sincerità, bensì «di competenza, precisione e lucidità» (ivi, pp. 68 ss.).
15. J. Ndukaku Amankulor, Jerzy Grotowski’s Divination Consultation, in Schechner, Wolford (eds.), The Grotowski Sourcebook, cit., p. 360.
16. Grotowski, Tu es le fils de quelqu’un, cit., p. 68.
17. I Wayan Lendra, Bali and Grotowski. Some Parallels in the Training Process, in Schechner, Wolford (eds.), The Grotowski Sourcebook, cit., pp. 315 ss.
18. J. Grotowski, Dalla compagnia teatrale all’arte come veicolo, in Opere e sentieri, II. Jerzy Grotowski.Testi 1968-1998, cit., p. 102.
19. I Wayan Lendra, Bali and Grotowski, cit., p. 320.
20. Grotowski, Tu es le fils de quelqu’un, cit., pp. 73-4.
21. Ivi, p. 78.
22. T. Richards, Al lavoro con Grotowski sulle azioni fisiche, Ubulibri, Milano 1993, p. 43.
23. I Wayan Lendra, Bali and Grotowski, cit., p. 322. Secondo questo collaboratore di Grotowski (pp. 326-7), Motions presupponeva il concetto di «energia dormiente» (kundalini, in sanscrito) ovvero il serpente alla base della colonna vertebrale, che potrebbe abbinarsi all’idea molto contestata di Paul MacLean che il cervello dell’uomo sia, in termini di evoluzione, «trino», in quanto consisterebbe di una corteccia frontale recente, di una parte subcorticale tipica dei mammiferi, sede delle emozioni, e di una parte «rettile» più arcaica, che rimanderebbe alle «fonti biogenetiche del rituale» (cfr. R. Schechner, Magnitudini della performance, Bulzoni, Roma 1999, pp. 247-8).
24. I Wayan Lendra, Bali and Grotowski, cit., pp. 324 ss.
25. Motions era sorto propriamente nell’ambito del Teatro delle fonti e sarebbe passato nell’ultimo periodo di lavoro di Grotowski. Si possono in effetti supporre analogie fra Motions e i Mouvements di Gurdjieff, oltre all’influsso di Castaneda (cfr. Schechner, Exoduction, cit., p. 477; L. Kolankiewicz, Grotowski alla ricerca dell’essenza, in Essere un uomo totale. Autori polacchi su Grotowski. L’ultimo decennio, a cura di J. Degler, G. Ziólkowski, Titivillus, Corazzano 2005, pp. 233-4). Va ricordato che i Mouvements concepiti da Gurdjieff, come esercizi e danze, miravano, attraverso «precisione» ed «effetti», a «risvegliare le capacità latenti corrispondenti ad una parte inesplorata della nostra natura», allo «scopo di riscoprire una “presenza dell’Essere” attraverso il riequilibrio del corpo e un nuovo ordine delle sue funzioni» per «una differente qualità di manifestazione di se stessi» (M. de Gaigneron, Danze sacre, in Georges Ivanovitch Gurdjieff, a cura di B. de Panafieu, Edizioni Riza, Milano 2001, vol. I, pp. 282-3).
26. F. Tiezzi, Pas de viande dans un restaurant de poisson. Il grado zero della scrittura, in Il Patalogo
11. Annuario 1988 dello Spettacolo, Ubulibri, Milano 1988, p. 212.
27. de Gaigneron, Danze sacre, cit., p. 286.
28. Schechner, Magnitudini, cit., pp. 245 ss.; Id., Exoduction, cit., pp. 472-3.
29. P. Winterbottom, Two Years Before the Master, in “The Drama Review”, 35, 1 (T 129), Spring 1991, pp. 140 ss.
30. Richards, Al lavoro, cit., pp. 30 ss.
31. Cfr. anche nota 36; Grotowski, Ciò che resterà, cit., pp. 120-1.
32. «Nel teatro di Grotowski la liberazione viene sempre mediante la morte, la tortura del corpo e l’umiliazione dello spirito. Per accettare la metafisica di Grotowski, si deve credere che Dio esiste e che non c’è speranza» (J. Kott, Il diario teatrale, Bulzoni, Roma 1978, pp. 142, 144).
33. J. Kott, Eros e Thanatos, SE, Milano 1992, pp. 60 ss. Oltre a Kott, sul lavoro a Irvine è interessante la descrizione contenuta nel capitolo d’appendice di Robert Findlay a Z. Osinski, Grotowski and His Laboratory, PAJ Publications, New York 1986, pp. 174 ss.
34. J. Grotowski, Teatro Oriente/Occidente, in Teatro Oriente/Occidente, a cura di A. Ottai, Bulzoni, Roma 1986, p. 9.
35. Osinski, Grotowski and His Laboratory, cit., pp. 89, 106-7, 154 ss.
36. Nel 1996, Grotowski, nella consapevolezza del suo precario stato di salute, vorrà aggiornare il nome dell’Istituto in Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards, tanto più che da qualche tempo affidava la direzione del lavoro pratico al giovane collaboratore, al quale stava trasmettendo la propria esperienza. Sugli sviluppi e i progetti del Workcenter, cfr. Opere e sentieri, I. Il Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards, a cura di A. Attisani, M. Biagini, Bulzoni, Roma 2007.
37. J. Grotowski, Uno sguardo dal Work Center, in Il Patalogo 17. Annuario 1994 dello Spettacolo, Ubulibri, Milano 1994, p. 109.
38. Sul trasferimento di Grotowski a Pontedera e la costituzione del Workcenter, cfr. pure M. Schino, Il crocevia del Ponte d’Era. Storie e voci di una generazione teatrale 1974-1995, Bulzoni, Roma 1996, pp. 205 ss.
39. L. Flaszen, Da mistero a mistero: alcune osservazioni in apertura, in J. Grotowski, L. Flaszen, Il Teatr Laboratorium di Jerzy Grotowski 1959-1969, a cura di L. Flaszen, C. Pollastrelli, Fondazione Pontedera Teatro, Pontedera 2001, pp. 29, 32.
40. Cfr. Perrelli, I maestri, cit., p. 53. Anche nel periodo dell’Arte come veicolo, Grotowski non arriverà programmaticamente a prevedere spettatori per il suo lavoro, ma sempre e solo testimoni, qualcosa che, a ben vedere, è meno clamoroso di quanto non appaia, non essendo in gioco nessuna forma dichiarata di rappresentazione teatrale: «Siamo testimoni di un duello alla spada» – osserva giustamente Ferdinando Taviani – «ma siamo spettatori del duello fra Laerte ed Amleto. […] Chi tira al fioretto deve sorprendere l’avversario, non il testimone. L’attore che fa Laerte deve (dovrebbe) sorprendere lo spettatore e – si spera – non il compagno che fa Amleto» (F. Taviani, Grotowski posdomani. Ventuno riflessioni sulla doppia visuale, in “Teatro e Storia”, XIII-XIV, 1998-1999, 5-6, p. 416).
41. Al di là dei vari partecipanti selezionati per i seminari e le ricerche che si tenevano a Pontedera, «in certi periodi», spiegava Grotowski nel ’94, «incontriamo i gruppi teatrali e normalmente la cosa avviene in questo modo: il gruppo arriva e mostra gli elementi del suo lavoro, gli esercizi e il suo spettacolo a noi, senza nessun esterno, e noi stessi mostriamo quello che facciamo, cioè gli esercizi e gli elementi di preparazione e anche qualcosa che chiamiamo Azione, una struttura performativa molto elaborata. Dopo, si fa una specie di incontro in cui ci si parla e si analizza il lavoro dal punto di vista del mestiere, dell’artigianato, quello che abbiamo osservato gli uni riguardo agli altri; mai dico quello che penso del lavoro dei visitatori se non me lo domandano, ma normalmente lo domandano. Abbiamo incontrato finora quasi 60 ensemble italiani e stranieri» (Grotowski, Uno sguardo dal Work Center, cit., p. 112). È, tra l’altro, in questo periodo che Grotowski rinsalda il suo rapporto con Anatolij Vassiljev.
42. Action o Main Action era nata a Irvine fra l’ottobre 1985 e il giugno 1986; cfr. l’intervista a Thomas Richards di L. Wolford, The Edge-Point of Performance (Fragments), in Schechner, Wolford (eds.),The Grotowski Sourcebook, cit., p. 434 (di questo testo esiste anche un’edizione italiana: T. Richards, Il punto-limite della performance. Domande di Lisa Wolford, Fondazione Pontedera Teatro, Pontedera 2000).
43. U. Volli, La quercia del duca. Vagabondaggi teatrali, Feltrinelli, Milano 1989, pp. 56 ss.
44. R. Molinari, La strada della ricerca, in Il Patalogo 11. Annuario 1988 dello Spettacolo, cit., p. 207.
45. Per uno sviluppo analitico di questo, come di altri passaggi dell’evento, cfr. A. Attisani, Un teatro apocrifo, Medusa, Milano 2006, in particolare cap. VI.
46. Volli, La quercia, cit., pp. 60-1.
47. Tiezzi, Pas de viande, cit., p. 210. Grotowski riteneva che, al di là dell’oggettiva elaborazione, le due azioni riprendessero «entrambe quel momento eccezionale in cui la cultura egiziana, quella ebraica e quella grecoromana si sarebbero incrociate e integrate in un’unica koiné» (Volli, La quercia, cit., p. 61). Tiezzi darà un ulteriore resoconto di Action a distanza di tempo in Dieci anni dopo: only connect, in Il Patalogo 21. Annuario 1998 dello Spettacolo, Ubulibri, Milano 1998, pp. 243 ss., nel quale rileverà: «Qui il procedimento delle azioni fisiche mi è chiaro: ci troviamo, finalmente di fronte, “la tigre” che Stanislavskij esemplificò, solo attraverso gli impulsi, negli ultimi tempi del suo lavoro. E, a fronte degli eredi, veri o falsi come Anastasia di Russia, Action suona come un’eresia al “metodo”. Ho
visto il lavoro di Stanislavskij come avrebbe potuto evolversi» (ivi, p. 246).
48. L’ultima versione, che viene presentata nel 2008, s’intitola The Letter; per un’analisi delle fasi intermedie si veda Attisani, Un teatro apocrifo, cit. Ancora sull’evoluzione di Action, cfr. Id., L’invenzione del teatro. Fenomenologie e attori della ricerca, Bulzoni, Roma 2003, pp. 269-70, che ricorda l’importante documentazione filmica, Art as Vehicle, a cura di Mercedes Gregory del 1989, realizzata su richiesta dello stesso Grotowski, come la sfuggente e non mimetica idea all’origine dell’evento: «un gruppo di bambini che entrano in una piccola chiesa e giocano con gli oggetti sacri».
49. L. Wolford, Action. The Unrepresentable Origin, in Schechner, Wolford (eds.), The Grotowski Sourcebook, cit., pp. 409 ss.; questo saggio, considerevolmente rielaborato e allargato fino agli sviluppi di
Action del 2005-06, è in traduzione italiana: Action – l’irrappresentabile origine, con una postilla: riflessioni di un decennio, in Opere e sentieri, I. Il Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards, cit., pp. 63 ss.
50. Poco prima della sua morte, Grotowski fu tuttavia categorico: «Ripeto, dunque: Action non è uno spettacolo. […] È concepita per strutturare, in un materiale legato alle performing arts, il lavoro su se stessi degli attuanti» (J. Grotowski, Testo senza titolo, in Opere e sentieri, II. Jerzy Grotowski. Testi 1968-1998, cit., p. 125), e lo stesso Richards (considerato da Grotowski il vero autore dell’evento) – ribadito che il valore di Action sta nel fare (dell’attuante) e non nell’essere vista e che la sua filiazione estetica è più relativa alla poesia che alla prosa narrativa – arriva appena ad ammettere che la versione che si fissa negli anni Novanta presenti, a differenza di Downstairs Action, quantomeno un’attenzione per la collocazione e il punto di osservazione dei testimoni, nonché, «potenzialmente» all’interno di un programmatico «work in progress», un assai eventuale rimando a modi di percepire ruoli o semplici episodi (Wolford, The Edge-Point, cit., pp. 446-7, 458).
51. Citato in G. Manzella, La danza delle domande. Due giorni con Jerzy Grotowski, in Il Patalogo
10. Annuario 1987 dello Spettacolo, Ubulibri, Milano 1987, p. 179.
52. Schechner, Exoduction, cit., p. 491.
53. «Sono testimone di un fenomeno vivente che trova il suo significato nella vita-esperienza di quelli che fanno; ciò che vedo sono le tracce visibili di questo e non, come nella performance convenzionale, una serie di segni creati in modo che qualcuno che guarda da fuori possa percepirli» (Wolford, Action. The Unrepresentable Origin, cit., p. 421).
54. Ivi, pp. 413-4. Interpolati ai canti di Action ci sono passi dell’apocrifo Vangelo secondo Tommaso, testo che in effetti «sembra fare da cornice a tutta l’ultima fase del lavoro di Grotowski» (C. Guglielmi, Le tecniche originarie dell’attore: lezioni di Jerzy Grotowski all’Università di Roma, in “Biblioteca Teatrale”, luglio-dicembre 2000, p. 76). Si tratta di inserimenti testuali, più che drammaturgici, con un forte riscontro ideologico perché il Vangelo secondo Tommaso – che capterebbe i fermenti in azione nella culla della cultura occidentale nel Mediterraneo orientale – «avvalora, secondo Grotowski,l’ipotesi dell’esistenza di un’origine, di elementi originari nell’essere umano precedenti le differenziazioni culturali, su cui si sarebbero fondate tutte le tecniche tradizionali: in esso, infatti, appaiono nozioni, come il movimento/riposo o lo stato di vigilanza e all’erta, che presentano similarità con altre tradizioni anche se non sono con esse in rapporto di filiazione» (ivi, p. 74). La situazione nella quale «il movimento è nello stesso tempo il riposo» è un obiettivo cruciale del lavoro di Grotowski, significando che «il movimento e il corpo sono dentro la coscienza trasparente. È il corpo o è il movimento? Non si sa. Ciò succede dentro la coscienza trasparente, che resta in riposo e che è spaziale» (J. Grotowski, Tecniche originarie dell’attore (dispensa non riveduta dall’autore, a cura di L. Tinti), Istituto del Teatro e dello Spettacolo (I cattedra), Roma [1982], pp. 84, 245 ss.; importante per la definizione del movimento-riposo, il riferimento alla tradizione degli Esicasti, cfr. in merito T. Maravi|, L’esichia dell’attore. Grotowski e l’esicasmo, in “Culture Teatrali”, autunno 2003, 9, pp. 37 ss., e, in generale, sul tema, Attisani, Un teatro apocrifo, cit., p. 114, che accentua la suggestione su Grotowski dell’insistenza di questo Vangelo «sull’“essere passanti” e transeunti, sulla condizione umana basata sul fare anziché sulla presunta immutabilità dell’essere, concezione antitetica alle teologie sia classiche che moderne. Per non parlare del principio, dell’arché, dove è anche la fine; colui che lo trova non muore, o meglio: “conoscerà la fine, ma non assaggerà la morte”»).
55. T. Kornas´, Veicolo per sé e per gli altri, in Degler, Ziólkowski (a cura di), Essere un uomo totale,
cit., pp. 110 ss.
56. M. Kanabrodzki, Il bambino e l’albero. Un addio a Jerzy Grotowski, in Degler, Ziólkowski (a cura di), Essere un uomo totale, cit., p. 136.
57. Kolankiewicz, Grotowski alla ricerca dell’essenza, cit., pp. 264-5.
58. Il Workcenter di Jerzy Grotowski and Thomas Richards e Action, in “Teatro e Storia”, XIII-XIV, 1998-1999, 20-21, p. 488.
59. Wolford, The Edge-Point, cit., p. 435. Action si pone quindi come il punto di partenza e il sacello di energia di tutte le successive performances del Workcenter, una specie di cornice programmatica, in virtù della quale è evidente che «la funzione [delle altre] opere performative» – come ha spiegato Thomas Richards nel 2004 – «è fornire un supporto per una relazione che può dispiegarsi in azione, creare un contatto tra le risorse interiori dell’attuante e sedi di energia ancora più sottili, che possono essere percepite dall’attuante come se fossero al di fuori di lui, o addirittura al di sopra. Il lavoro con il gruppo sui canti, sulle linee d’azione, sui movimenti composti, sui testi e sulla narrazione sono strumenti in funzione della trasparenza. Intendo trasparenza alla lettera. Le sedi di energia possono essere come porte aperte, o come fiori che sbocciano o si richiudono. Quando sono in espansione (la nostra espansione interiore), si verifica naturalmente una sorta di “traboccare”, e il nostro stesso essere può allora fungere da canale per la trasformazione di energie» (T. Richards, Frammenti da In the Territory of Something Third. Intervista a cura di Kris Salata, in Opere e sentieri, I. Il Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards, cit., p. 177).
60. Wolford, Action. The Unrepresentable Origin, cit., pp. 424 ss.
61. G. Vacis, Awareness. Dieci giorni con Jerzy Grotowski, Rizzoli, Milano 2002, p. 259.
62. M. De Marinis, In cerca dell’attore. Un bilancio del Novecento teatrale, Bulzoni, Roma 2000, pp. 251-2.
63. F. Ruffini, Jerzy Grotowski. Frontiere, maestri, eredi, in “Primafila”, febbraio 1998, 40, p. 32.64. Sulla persistenza di un’eco stanislavskiana ne Il Performer, cfr. F. Ruffini, Tertium datur: il performer e l’attore, in “Teatro e Storia”, III, ottobre 1988, 2, pp. 273 ss. In questo saggio, si puntualizza, comunque, che, mentre l’attore stanislavskiano «scava nella propria memoria per essere un altro, il Performer arriva alla memoria dell’altro per tornare ad essere sé» mirando all’«origine» (ivi, p. 278). Nella trascrizione più estesa che Gianni Manzella fa delle considerazioni grotowskiane sulla reminiscenza, questa viene indicata dal maestro polacco come «il vero segreto del mestiere, scoprire in noi un altro. Siamo al di fuori del personaggio ma anche del non-personaggio» (cfr. La danza delle domande, cit., p. 179).
65. J. Grotowski, Il Performer, in Opere e sentieri, II. Jerzy Grotowski. Testi 1968-1998, cit., pp. 84-6.
66. Citazioni da una conversazione di Kris Salata con Mario Biagini, in Attisani, Un teatro apocrifo, cit., p. 178.
67. Si osservi che, nell’enunciare l’idea di «origine», lo stesso Grotowski sembra avere, nell’inciso «se oso dirlo», una prudente esitazione (Grotowski, Il Performer, cit., p. 87).
68. Grotowski, Tecniche originarie dell’attore, cit., pp. 256-7. Per Grotowski, l’alchimia è in tal senso un prolungamento dell’eresia dello gnosticismo.
69. Citato in R. Schechner, Preface a Schechner, Wolford (eds.), The Grotowski Sourcebook, cit.,p. XXV.
70. A. Attisani, Action in sé, in Opere e sentieri, I. Il Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards, cit., p. 132.
71. Questi canti, secondo Richards, «possono funzionare indipendentemente dalla nazionalità o dalla razza» e, per Grotowski, avrebbero addirittura elementi «in comune con l’antico Egitto oppure probabilmente ipotetiche radici in qualcosa di precedente», per cui arrivava a parlare di «un’ampia “culla di tradizioni” comprendente l’antico Egitto, il territorio di Israele, la Grecia e l’antica Siria, in quanto culla dell’Occidente» (Wolford, The Edge-Point, cit., pp. 435-6, 452; cfr. anche la precedente nota 54).
72. Peter Brook ha parlato dell’«arte come veicolo» di Grotowski («Mi sembra che, oggi, siamo di fronte a qualcosa che è esistito un tempo ma che è stato dimenticato da secoli e secoli, ed è il fatto che fra i veicoli che permettevano all’uomo di accedere a un altro livello e di servire una funzione più giusta nell’universo, esiste questo mezzo di comprensione che è l’arte drammatica in tutte le sue forme») in una conferenza fiorentina del marzo 1987, nella quale ecumenicamente cercava di conciliare teatro e ricerca iniziatica come strade su cui l’attore può operare una scelta (P. Brook, Grotowski, l’arte come veicolo, in Centro di Lavoro di Jerzy Grotowski/Workcenter of Jerzy Grotowski, Centro per la Sperimentazione Teatrale, Pontedera 1988, pp. 15-6; cfr. anche “Teatro e Storia”, III, ottobre 1988, 2, pp. 255 ss.). A una definizione analoga Peter Brook si era peraltro già avvicinato nella sua antica Prefazione a J. Grotowski, Per un teatro povero, Bulzoni, Roma 1970, p. 16, come ne Lo spazio vuoto, Bulzoni, Roma 1998, p. 69.
73. Il Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards e Action, cit., p. 488.
74. Per quanto riguarda Il Performer, nella complessa linea di trasmissione orale dei suoi pensieri e delle sue esperienze, Grotowski ne ha rivisto il testo (aggiungendo un paragrafo finale che ricrea per interpolazioni due sermoni di Meister Eckhart) dagli appunti di Georges Banu condensati in mezza dozzina di pagine, ma ricavati da un seminario a Pontedera, il 14 e 15 febbraio 1987. Ferdinando Taviani ha quindi potuto parlare per questo documento di un’autentica «ginnastica del discorso», nel suo intervento, Commento a “Il Performer”, in “Teatro e Storia”, III, ottobre 1988, 2, p. 268.
75. Dalla compagnia teatrale all’arte come veicolo deriva dalla sintesi di due conferenze grotowskiane tenute a Modena nell’ottobre 1989 e a Irvine nel maggio dell’anno successivo. Il testo fu significativamente collocato al termine del citato libro di Thomas Richards, Al lavoro con Grotowski sulle azioni fisiche (1993), che si sofferma – come sottolinea lo stesso Richards – sulla fase di ricerche precedenti il 1989-90 (cfr. l’intervista a Wolford, The Edge-Point, cit., p. 452).
76. Grotowski, Tu es le fils de quelqu’un, cit., p. 80.
77. Grotowski, Il Performer, cit., p. 83. Sarebbe essenzialmente ancora una volta da Adam Mickiewicz che Grotowski recepisce questa visione forte e guerriera della completezza e dell’unitarietà di un essere umano «tale da dedicarsi totalmente a quello che fa», disponendo in tal modo di un «organo del sentire» diverso e più raffinato (cfr. M. Fabbri, Il teatro polacco come luogo rituale di restituzione del mito. Tradizione romantica e pratica contemporanea, in “Teatro e Storia”, XV, 2000, 22, p. 22).
78. Grotowski, Il Performer, cit., pp. 83-4.
79. Citato in Wolford, The Edge-Point, cit., p. 451.
80. C. Marowitz, Grotowski in Irvine. Breaking the Silence, in Schechner, Wolford (eds.), The Grotowski Sourcebook, cit., p. 355.
81. Ferdinando Taviani osserva che Grotowski è principalmente «qualcuno che persegue e trasmette in maniera controllata e metodica una via iniziatica», ma della «tradizione iniziatica» inverte i principi di fondo appoggiandosi sul teatro e non sulla religione. In questa operazione eterodossa, «probabilmente il lavoro non teatrale di Grotowski fabbrica senso per il teatro proprio perché gli edifica concretamente accanto qualcosa che lo trascende» (Taviani, Commento a “Il Performer”, cit., pp. 269 ss.).
82. Come osserva Malgorzata Dziewulska, Grotowski forzò decisamente «la via d’uscita dalla gabbia del Nuovo Illuminismo», non esitando a infrangere «l’accordo razionalista secondo il quale ci si poteva occupare solo di quello che è osservabile, trovando nel teatro un eccellente strumento per questo esperimento, poiché, secondo Peter Brook, esso si occupa in generale della rappresentazione delle cose invisibili» [M. Dziewulska, Il ladro di fuoco, in Degler, Ziólkowski (a cura di), Essere un uomo totale, cit., p. 159].
83. Cfr. Wolford, The Edge-Point, cit., pp. 453-4.
84. Grotowski, Tecniche originarie dell’attore, cit., pp. 25, 16.
85. Attuante o in inglese doer è il termine con il quale Grotowski indica chi agisce nella performance, evitando ogni confusione con l’attore.
86. Grotowski, Il Performer, cit., pp. 85-6.
87. Grotowski, Dalla compagnia teatrale, cit., pp. 93-7.
88. Ivi, p. 98.
89. Ivi, pp. 101-2.
90. Ivi, pp. 105-6, 109.
91. Le sue ceneri furono sparse ad Arunachala, sulla montagna di Ramana Maharishi, il saggio indiano che Grotowski bambino aveva scoperto nel libro India segreta di Paul Brunton e che rimase una guida della sua ricerca umana e artistica (cfr. Perrelli, I maestri della ricerca, cit., pp. 38-9).
92. Taviani, Grotowski posdomani, cit., p. 405.
93. E. Barba, Il prossimo spettacolo, a cura di M. Schino, Textus, L’Aquila 1999, pp. 227-8.
94. Nel corso di un seminario torinese, il 1° aprile 2008, Mario Biagini suggeriva che la principale domanda posta da Grotowski potesse essere relativa al senso dell’io, ma che la domanda «Chi sono io?» facesse coincidere il proprio orizzonte speculativo con un «saltare» di chi veniva a interrogarsi «sulla propria ombra».
95. Attisani, Un teatro apocrifo, cit., p. 178.
96. M. BIAGINI, Seminario a “La Sapienza”, ovvero della coltivazione delle cipolle, in Opere e sentieri, I. Il Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards, cit., p. 59