Eugenio BARBA: Lettera attore D.

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1680 iscritti / anno VII,  n ° 42 / novembre/dicembre 2008


BARBA Lettera attore D.

Eugenio BARBA: Lettera all’attore D.

da

BARBA: “Teatro, Solitudine, mestiere, rivolta”

Ubulibri editore

“Scritta da Eugenio Barba a uno dei suoi attori nel 1967, illustra la visione teatrale del direttore dell’Odin Teatret, particolarmente per quel che riguarda l’atteggiamento d’un attore che si nutra delle proprie necessità personali, ” le eterne domande senza risposta…”

Ogni anno, all’inizio dei nostri laboratori, leggiamo ai partecipanti questa lettera sottolineando in particolare due passi: “Spesso sono rimasto colpito dalla mancanza di serietà nel tuo lavoro” e poi, “Il  secondo atteggiamento che riscontro in te é l’imbarazzo di considerare la serietà del tuo lavoro”.

Ringraziamo Eugenio Barba per il permesso alla pubblicazione.

Il testo è tratto da “Teatro, Solitudine, mestiere, rivolta” di Eugenio Barba, Ubulibri editore.

Buona Lettura



Eugenio BARBA: Lettera all’attore D.

da BARBA: “Teatro, Solitudine, mestiere, rivolta”

Ubulibri editore

Scritta da Eugenio Barba a uno dei suoi attori nel 1967, illustra la visione teatrale del direttore dell’Odin Teatret, particolarmente per quel che riguarda l’atteggiamento d’un attore che si nutra delle proprie necessità personali, ” le eterne domande senza risposta”… Nel testo di Barba il teatro vocazionale è visto come una catacomba, il luogo segreto dove si prepara la nascita di un altro teatro, di un’altra tradizione.

Questo testo, uno dei più emblematici di Eugenio Barba, fu pubblicato per la prima volta nel libro Synspunkter om kunst, Brondums Forlag, Copenaghen 1968. E’ stato tradotto in numerose lingue. Col passare del tempo, questa ampia diffusione insieme al suo carattere denso e fortemente programmatico gli hanno dato il valore di un manifesto.

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Spesso sono rimasto colpito dalla mancanza di serietà nel tuo lavoro. Non é dovuta ad assenza di concentrazione o di buona volontà. E l’espressione di due atteggiamenti.

Come prima cosa si ha l’impressione che le tue emozioni non siano dettate da un convincimento interiore, da una necessità irrefrenabile che lascia il suo marchio nell’esercizio, nell’improvvisazione, nelle scene che esegui. Puoi essere concentrato nel tuo lavoro, non risparmiarti, i tuoi gesti possono essere tecnicamente precisi, ma le tue azioni rimangono vuote. Non credo in quello che fai. Il tuo corpo dice solo una cosa: obbedisco a un ordine ricevuto dall’esterno. I tuoi nervi, la tua colonna vertebrale, il tuo cervello non sono impegnati, e con una attività epidermica vuoi farmi credere che ogni azione è vitale per te. Tu stesso non avverti l’importanza di quello di cui vuoi rendere partecipe lo spettatore.

Come puoi sperare allora che lo spettatore sia preso dalle tue azioni?

Come puoi affermare e far capire che il teatro è il luogo dove le pastoie sociali devono sparire per fare spazio a una comunicazione franca e assoluta?

Tu rappresenti la collettività in questo luogo, con le umiliazioni

che hai subito, con il tuo cinismo che è autodifesa e il tuo ottimismo che è irresponsabilità, con il tuo senso di colpa e il tuo bisogno di amore, con la tua nostalgia per un paradiso perduto, nascosto nel passato, nell’infanzia, nel calore di un essere che ti faceva dimenticare l’angoscia.

Ogni persona presente in questa sala sarà scossa se tu effettuerai, durante la rappresentazione, un ritorno a queste origini, a questo terreno comune dell`esperienza individuale, a questa patria che si cela. Questo è il legame che ti unisce agli altri, il tesoro sepolto nel più profondo di noi stessi, mai messo allo scoperto, perché e il nostro conforto, perché fa male a toccarlo. `

Il  secondo atteggiamento che riscontro in te é l’imbarazzo di considerare la serietà del tuo lavoro. Provi il bisogno di ridere, di sogghignare, di commentare con umorismo ciò che tu e i tuoi compagni fate. E’ come se volessi sfuggire la responsabilità che senti inerente alla tua professione e che consiste nello stabilire una relazione con gli altri uomini e nell’assumerti la responsabilità di ciò che riveli. Hai paura della serietà, della consapevolezza dl essere al limite del consentito, Hai paura che tutto quello che fai sia sinonimo di fanatismo, di noia, di isolamento professionale. Ma in un monde in cui gli  uomini che ci circondano non credono più in niente, o fanno finta dl credere per essere tranquilli, colui che scava in se stesso per fare il punto sulla sua condizione, sulla sua assenza di certezze, sul suo bisogno di vita spirituale, e preso per un fanatico e per un ingenuo. In un mondo in cui la norma è l’inganno, colui che cerca la “sua” verità é scambiato per ipocrita.

Devi accettare che tutto ciò che crei, a cui dai libertà e forma nel tuo lavoro, appartiene alla vita e merita rispetto e protezione. Le tue azioni, dinanzi alla collettività degli spettatori, devono possedere la stessa forza della fiamma nascosta nella tenaglia incandescente o nella voce del roveto ardente. Solamente allora le tue azioni potranno continuare a vivere nei sensi e nella memoria delle spettatore, potranno fermentare a conseguenze imprevedibili.

Dullin, mentre era sul suo letto di morte, contorceva il viso assumendo le sembianze e i tratti dei grandi ruoli che aveva incarnato: Smerdjakov, Volpone, Riccardo III. Non era solo l’uomo Dullin che moriva, ma anche l’attore con tutte le tappe della sua vita.

Se ti domando perche hai scelto di diventare attore, tu mi risponderai: per esprimermi, per realizzarmi. Ma che significa realizzarsi ? Chi si realizza? Il capo ufficio Hansen, che visse un’esistenza rispettabile, senza problemi, mai tormentato da domande che rimangono senza risposta? O il romantico Gaughin che dopo aver rotto con le norme sociali portò a termine la sua esistenza nella privazioni e nella miseria di un villaggio polinesiano, Noa-Noa dove credeva di aver ritrovato la libertà perduta? In un’epoca in cui la fede in Dio è diagnosticata come nevrosi, ci manca il metro per misurare se la nostra vita si è realizzata o no.

Quali che siano state le segrete motivazioni personali che ti hanno portato al teatro, ora che eserciti questa professione devi trovarne un senso che, andando aldilà della tua persona, ti confronti socialmente agli altri.

Solo nelle catacombe si può preparare una vita nuova. Ecco il posto di quelli che nella nostra epoca cercano un impegno spirituale cimentandosi con le eterne domande senza risposta. Questo presuppone coraggio: la maggior parte della gente non ha bisogno di noi. Il tuo lavoro è una forma di meditazione sociale su te stesso, sulla tua condizione umana, sulle vicende del nostro tempo che ti toccano più profondamente. Ogni rappresentazione in questo teatro precario che disturba il pragmatismo quotidiano può essere l’ultima. E tu devi considerarla come tale, come la possibilità di raggiungere te stesso, consegnando agli altri il resoconto delle tue azioni, il tuo testamento.

Se essere attore significa tutto questo per te, allora nascerà un altro teatro; un’altra tradizione, un’altra tecnica. Un rapporto nuovo si stabilirà fra te e lo spettatore che la sera viene a vederti perché ha bisogno di te

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