Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards e “Action”
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Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards e “Action”
Da una Mail dello stesso Workcenter una breve nota sulla sua nascita, su Action, su One Breth Left. All’interno l’interessante distinzione tra:
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“Arte come veicolo“
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“Arte come presentazione“
Il Workcenter of Jerzy Grotowski è nato nel 1986 su invito del Centro per la Sperimentazione e la Ricerca Teatrale (attualmente: Fondazione Pontedera Teatro) di Pontedera, Italia, del suo direttore Roberto Bacci e di Carla Pollastrelli.
Nel 1996 Jerzy Grotowski decide che il nome del Workcenter diventi: Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards, perché, come lui stesso ha precisato, la direzione del lavoro pratico già si concentra nelle mani di Thomas Richards.
Tra queste due date Jerzy Grotowski realizza con Thomas Richards il processo della trasmissione nel senso antico, tradizionale del termine.
Nel 1987, Thomas Richards è nello stesso tempo il principale attuante e il leader di Downstairs Action. Questa opera, così chiamata semplicemente a causa dell’ubicazione a pianterreno della sala di lavoro, è stata filmata nel 1989 da Mercedes Gregory. Sono seguite diverse altre creazioni, sotto varie forme ma di solito all’epoca senza osservatori esterni. Dal 1994, Thomas Richards dirige Action, l’opera che ha creato e sulla quale sta proseguendo un lavoro costante.
Action, in un materiale legato alle performing arts, struttura il lavoro su se stessi degli attuanti.
E’ composta da linee di azioni elaborate nei dettagli, costruite con e attorno a antichi canti vibratori. La maggior parte di questi canti sono di origine africana e afro-caraibica e s’esprimono dunque nelle lingue praticate da queste culture.
In Action appaiono anche, spesso sotto forma di incantazioni, frammenti di un testo in inglese tradotto parola per parola dal copto. Questo testo proviene da una fonte remota della tradizione giudaico-cristiana; non si può dire niente con sicurezza del suo sorgere.
Negli spettacoli teatrali in senso stretto, cioè nell’arte come presentazione, in linea di massima uno degli elementi indispensabili è il racconto, la narrazione. Si racconta una storia, anche se l’essenziale può essere qualcos’altro. Invece per l’osservatore di Action sarebbe più pertinente non cercare una storia – l’analogia potrebbe essere la poesia, piuttosto che la prosa.
Il fatto è che in Action non si cerca di raccontare una storia. Non è un’opera che appartiene all’ambito dell’arte come presentazione, ma all’ambito dell’ arte come veicolo. Perché si possono vedere le performing arts come una catena con numerosi anelli, in cui ad un’estremità si trova l’arte come presentazione (il teatro in senso stretto), e all’altra estremità l’arte come veicolo.
E’ qualcosa di molto antico, di piuttosto dimenticato. Nell’arte come veicolo ci sono opere, ma non richiedono necessariamente la presenza di osservatori esterni, perché questo lavoro non si orienta verso lo spettatore come verso un obbiettivo. Per questo i testimoni possono essere presenti o no.
Per le persone che agiscono (i doers, gli “attuanti”) l’opera è una sorta di veicolo per il lavoro su se stessi, nel senso che, come in certe vecchie tradizioni, l’attenzione per l’arte va di pari passo con l’approccio all’interiorità dell’essere umano.
Se si parla in termini di qualità di energia, in Action il lavoro sugli antichi canti vibratori diventa una sorta di itinerario che parte dal vitale, dal biologico addirittura, per andare verso il sottile: salita verso il sottile e discesa di questo sottile verso il livello della realtà più ordinaria.
Dal punto di vista degli elementi tecnici, tutto in questo ambito di ricerca è quasi come in un normale lavoro teatrale di lunga durata. Si lavora essenzialmente sui canti, ma si lavora anche sugli impulsi, la partitura delle reazioni, la logica delle più piccole azioni, i modelli arcaici di movimento, la parola, così antica da essere quasi sempre anonima. Tutto dipende dalla competenza artigianale con la quale si è capaci di lavorare, dalla qualità dei dettagli, dalla qualità delle azioni e del ritmo, dall’ordine degli elementi. Dunque si cerca come essere impeccabili dal punto di vista del mestiere. In Action come in uno spettacolo del teatro d’arte, la struttura è ripetibile; ha un inizio, uno sviluppo e una fine in cui ogni elemento deve avere il suo posto logico tecnicamente necessario.
Osservatori esterni vengono invitati abbastanza spesso a vedere Action. All’inizio questo concerneva un piccolissimo numero di persone, ma adesso dopo tutti questi anni si tratta, facendo una somma, di migliaia di testimoni – ma sempre in piccoli gruppi.
Se a volte un gruppo di teatro visita l’équipe del Workcenter, gli uni osservano il lavoro degli altri, opere e esercizi inclusi (però, niente partecipazione attiva reciproca). Più di 120 gruppi hanno preso parte fino ad oggi a questa specie di scambio di lavoro.
Questi incontri con gruppi di teatro erano più frequenti qualche anno fa; adesso si tratta piuttosto di gruppi di individui, di persone interessate alle ricerche nel campo delle arti, sovente con la preponderanza di attori.
L’équipe degli attuanti di Action è formata da stagiaires selezionati tra numerosi candidati, attori per la maggior parte. Il lavoro prende molte ore al giorno, sei giorni alla settimana, cosa che non lascia il tempo per guadagnare del denaro a parte, e il Workcenter non ha i mezzi per pagare e alloggiare gli stagiaires. Poiché la durata minima della loro permanenza è di un anno, gli stagiaires devono avere il denaro per mantenersi durante questo periodo. Le selezioni hanno luogo a intervalli di un anno o più.
Così Thomas Richards lavora con una équipe di attuanti la cui composizione può variare. E’ dunque necessaria un’intensa pratica di apprendistato che permette di integrare i nuovi attuanti in una struttura di base e di continuare sempre a approfondire questa struttura. Gli individui, i membri specifici del gruppo apportano le loro diverse potenzialità. E in seno al gruppo c’é, in permanenza, la presenza di Thomas Richards e Mario Biagini che, come attuanti, agiscono in tandem creativo.
Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards
Progetto The Bridge: Developing Theatre Arts
Dal 1998 una nuova ala si sta sviluppando in seno al processo creativo e di ricerca proprio del Workcenter, un’ala che cresce accanto all’investigazione condotta sull’arte come veicolo. In questo nuovo progetto viene scolpito nel materiale delle performing arts un ponte, che dal mondo del teatro si estende verso la ricerca sull’arte come veicolo. Ciò che appare, qui, non è ne’ teatro ne’ arte come veicolo. Piuttosto, emerge in stretta prossimità e contatto con le ricerche condotte al Workcenter uno spettacolo/non-spettacolo – dal Progetto The Bridge: Developing Theatre Arts, è apparso One breath left (Un solo respiro ancora), creato sotto la direzione di Mario Biagini e di Thomas Richards, un nuovo territorio di esplorazione attiva sulla relazione tra arte come veicolo e evento performativo, sulle possibilità creative dell’essere umano in azione.
Il Progetto The Bridge impegna una composizione di attori diversa da quella coinvolta in Action. One breath left ha profondi legami con elementi tradizionali. Le lingue utilizzate sono l’inglese, il mandarino e vari dialetti cinesi.
One breath left (diversamente da Action, che – data la sua natura – accetta solo piccoli gruppi di testimoni individualmente invitati) è aperto alla visione da parte di un numero variabile di spettatori, da 60 a 300 a seconda dello spazio in cui viene presentato.
One breath left è chiaramente un’opera strutturata. Racconta anche una sorta di storia. In uno spettacolo, il regista ha il potere di creare un montaggio che è rivolto a te che guardi, e attraverso questo montaggio cattura la tua attenzione e ti racconta qualcosa. La struttura di One breath left prende in considerazione chi guarda in modo simile a come fa uno spettacolo, e in questo è molto diversa dalla struttura di Action. Eppure ci sono dei momenti in One breath left in cui questa funzione del regista – di dirigere, in una certa misura, l’attenzione dello spettatore, il suo flusso associativo – viene come abbandonata: come se abdicassimo da questa posizione di forza. E, allora, cosa succede se si lascia, per esempio, che un canto abbia il suo sviluppo naturale per coloro che agiscono, pur in una situazione che fino ad allora aderiva ad una logica teatrale? In One breath left, in certi momenti, questa tecnica, questo tentativo di dirigere l’attenzione e il flusso associativo dello spettatore viene abbandonato. Per noi è un esperimento: lasciare andare, e vedere cosa succede.
Il Progetto The Bridge rappresenta un campo d’investigazione estremamente fertile per noi, qualcosa di nuovo e sconosciuto. E’ un po’ come se stessimo creando una struttura che prende in considerazione uno spettatore e che nello stesso tempo possa rinviare ad un altro tipo di lavoro, che crei addirittura come la “nostalgia” di un’altra cosa.
ONE BREATH LEFT
(Un solo respiro ancora)
Con Gey Pin Ang (Singapore), Souphiène Amiar (Algeria), Cécile Berthe (Belgio), Mario Biagini (Italia), Marie De Clerck (Belgio), Julius Jong Soon Foo (Singapore), Geneviève Miella Lavigne (Canada), Elisa Poggelli (Italia), Johanna Porkola (Finlandia), Pei Hwee Tan (Singapore), Francesc Torrent Gironella (Spagna), Jørn Riegels Wimpel (Norvegia).
Un’opera creata presso il WORKCENTER OF JERZY GROTOWSKI AND THOMAS RICHARDS all’interno del Progetto The Bridge: Developing Theatre Arts.
One breath left è diretto da Mario Biagini e Thomas Richards
In seno al Workcenter si sta sviluppando dal maggio 1998 una nuova ala, che cresce in contatto con la ricerca sull’arte come veicolo. Si tratta del Progetto The Bridge: Developing Theatre Arts – qui, il Workcenter scolpisce nella materia delle arti performative un ponte che dal mondo del teatro si estende verso l’investigazione sull’arte come veicolo. Ciò che appare non è ne’ teatro in senso stretto ne’ arte come veicolo. Piuttosto, ne emerge uno spettacolo/non-spettacolo: One breath left, diretto da Mario Biagini e Thomas Richards, un nuovo territorio di esplorazione attiva sulla relazione tra arte come veicolo e evento performativo, sulle possibilità creative dell’essere umano in azione.
Alla nascita, flessibile e morbido. Alla morte, duro e rigido.
Lao Tzu, Tao Te King, Capitolo 76
Una donna in agonia: le resta un solo respiro, la famiglia si riunisce attorno (e chi altri è là, vicino? I morti? I non nati ancora?). In un lampo, dai suoi ricordi e dai suoi desideri non avveratisi sorgono immagini, riappaiono visioni: sogni e paure d’infanzia, persone che ha incontrato, la sua ricerca della conoscenza e i suoi incubi… Sono solo le scorie della vita trascorsa che si risvegliano per un attimo, o una possibilità inesplorata – troppo tardi, un istante di riconoscimento, troppo tardi intravisto? E’ tutto un sogno? Se così, chi è il sognatore?
“La vita è come un cavallo che galoppa attraverso la breccia d’un muro.
Tutte le cose sorgono come alberi e piante, sbocciando di vita, e tutte le cose spariscono come un ribollire d’acqua.
Uno che sogna non sa di sognare.
Solo quando si sveglia s’accorge che stava sognando.
Ma uno stolto pensa di essere sveglio e segretamente ride di quello che pensa di sapere.
Che testa di maiale!
Voi e io stiamo sognando, e quando dico che state sognando, sogno anch’io!”
One breath left opera, sul piano narrativo, con procedimenti simili al sogno e suggerendo significati in allusione, analogamente a come – talvolta – si rivolgono a noi i ricordi remoti, o le visioni, o i desideri, enigmatici e evidenti insieme.
Il materiale testuale è stato attinto principalmente da antiche fonti cinesi quali le opere di Chuang Tzu e Lao Tzu. Nel lavoro sono utilizzati canti tradizionali in vari dialetti cinesi.
Una scelta di testi utilizzati in One breath left
E’ il cielo sempre in movimento? E’ la terra sempre immobile?
Sole e luna lottano per rimpiazzarsi l’un l’altra giorno e notte?
Chi combina questo? Chi controlla questo?
Chi, niente da fare, progetta tutto questo?
Forse è una macchina e una corda che la tira, e deve essere così?
O forse si muove da sé e poi non può fermarsi?
Le nuvole portano la pioggia o la pioggia porta le nuvole?
Chi, niente da fare, provoca tutto questo far l’amore?
Il vento sorge dal nord, un momento verso est, un momento verso ovest.
Chi respira di continuo? Chi niente da fare, sbuffa e ansima?
Montagne e foreste, stagni e laghi mi rendono felice e allegro. La gioia non é ancora finita e il dolore arriva. Alla venuta di dolore e gioia non posso resistere, la loro partenza non sono capace di arrestare.
Ah com’è triste! Siamo solo dimore per le cose.
Nascondi la tua barca nella valle, nascondi la tua rete nel fiume, così saranno al sicuro.
– Sì, ma nel mezzo della notte un uomo forte le porta via.
La moglie di Chuang Tzu morì. Un suo amico venne a fare le condoglianze e vide Chuang Tzu suonare il tamburo e cantare. Domandò: “Perché non piangi per tua moglie ma suoni il tamburo e canti?” Chuang Tzu disse: “Non così. In principio, non c’è vita. Non solo non vita, ma anche non forma; non solo non forma, ma anche non respiro. Dal caos c’è un cambiamento, e ecco il respiro; respiro cambia, ecco la forma; forma cambia, ecco la vita. Ora cambiamento di nuovo: lei è morta. Là dorme nella grande camera, e io piangere per lei? Questo non è comprendere. Così ho smesso”. (Questo testo è in cinese in One breath left)
Una volta Chuang Tzu sognò di essere farfalla, a fare a suo piacere, non sapendo di Chuang Tzu.
Poi si svegliò, e ora è Chuang Tzu.
Sì, non sapendo se Chuang Tzu sognò di essere farfalla o farfalla sognò di essere Chuang Tzu.
Farfalla? Chuang Tzu? Ci deve essere una differenza. Si sa che le cose cambiano.
Noi, cento ossa, nove buchi, sei organi, stiamo perfettamente nel tuo corpo, quale fra noi ti è più vicino? Ti piacciamo tutti nello stesso modo, o hai una preferenza speciale? Se siamo tutti trattati nello stesso modo, siamo tutti servi?
Se siamo tutti servi, non saremo capaci di regnare l’un sull’altro.
O facciamo a turno a essere il re? O davvero c’è un vero re?
Progetto The Bridge: Developing Theatre Art
Dal maggio 1998 in seno al Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards si sta sviluppando una nuova ala, che cresce in contatto con la nostra ricerca sull’arte come veicolo. Si tratta del Progetto The Bridge: Developing Theatre Arts – qui, il Workcenter scolpisce nella materia delle arti performative un ponte che dal mondo del teatro si estende verso l’investigazione sull’arte come veicolo. Ciò che appare non è ne’ teatro in senso stretto ne’ arte come veicolo. Piuttosto, ne emerge uno spettacolo/non-spettacolo: One breath left, diretto da Mario Biagini e Thomas Richards, un territorio di esplorazione attiva sulle relazione tra arte come veicolo e evento teatrale.
One breath left è chiaramente un’opera strutturata. Racconta anche una sorta di storia. In uno spettacolo, il regista ha il potere di creare un montaggio che è rivolto a te che guardi, e attraverso questo montaggio cattura la tua attenzione e ti racconta qualcosa. La struttura di One breath left prende in considerazione chi guarda in modo simile a come fa uno spettacolo, e in questo è molto diversa dalla struttura di Action. Eppure ci sono dei momenti in One breath left in cui questa funzione del regista – di dirigere, in una certa misura, l’attenzione dello spettatore, il suo flusso associativo – viene come abbandonata: come se abdicassimo da questa posizione di forza. E, allora, cosa succede se, per esempio, si lascia un canto avere uno sviluppo che sia naturale per le persone che agiscono, pur in una situazione che fino ad allora aderiva ad una logica teatrale? In One breath left, in certi momenti, questa tecnica, questo tentativo di dirigere l’attenzione e il flusso associativo dello spettatore viene abbandonato. Per noi è un esperimento: lasciare andare, e vedere cosa succede.
A proposito del Progetto The Bridge, Mario Biagini ha scritto, in Incontro all’Università “La Sapienza”:
Immaginate un monastero (dico immaginate perché non so se qualcosa di simile esista davvero), all’interno del quale i monaci fanno delle danze che in un certo senso sono la loro preghiera, il loro lavoro. Immaginate che queste danze vengano viste raramente dalla gente del villaggio, e nondimeno esiste un legame tra il monastero e il villaggio. E immaginate che, due o tre volte l’anno, sul sagrato all’esterno del tempio, sulla porta, i monaci eseguano altre danze, che la gente del villaggio viene a vedere e che contengono certi elementi di ciò che viene fatto dentro al monastero, dietro la porta. Per noi il Progetto The Bridge è qualcosa di simile a questo sogno, a quest’immaginazione. Certo, è evidente che il Workcenter non è affatto un monastero, ma per noi il Progetto The Bridge è paradossalmente legato a questa immagine.
Tutto questo rappresenta un campo d’investigazione estremamente fertile per noi, qualcosa di nuovo e sconosciuto. E’ un po’ come se stessimo creando una struttura che prende in considerazione uno spettatore e che nello stesso tempo possa rinviare ad un altro tipo di lavoro, che crei addirittura come la “nostalgia” di un’altra cosa.