RUFFINI: Stanislavskij maestro
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1700 iscritti / anno VIII, n ° 48 / novembre/dicembre 2009
Franco RUFFINI: Stanislavskij maestro
Introduzione al volume
RUFFINI: “Stanislavskij. Dal lavoro dell’attore al lavoro su di sé”
Laterza editore.
“Konstantin Sergeevič Stanislavskij (1863-1938) è stato uno degli inventori della regia, che proiettava il teatro dall’intrattenimento all’arte. Interprete acclamato per la verità dei suoi personaggi – da Trigorin nel Gabbiano ad Astrov in Zio Vanja, di Cechov, a Rakitin in Un mese in campagna di Turgenev – è stato il più grande scienziato dell’arte dell’attore. Le sue scoperte, passate sotto il nome di “sistema”, hanno cambiato il modo di accostarsi alla recitazione, sia da parte di chi la pratica, sia da parte di chi la studia o soltanto la osserva.”
Il testo che presentiamo è l’introduzione al volume “Stanislavskij. Dal lavoro dell’attore al lavoro su di sé”, del Prof . Franco Ruffini, Laterza editore.
Ringraziamo il Prof. Franco RUFFINI per il permesso alla pubblicazione.
Buona Lettura
Franco RUFFINI: Stanislavskij maestro
Introduzione al volume
RUFFINI: “Stanislavskij. Dal lavoro dell’attore al lavoro su di sé”
Laterza editore.
Konstantin Sergeevič Stanislavskij (1863-1938) è stato uno degli inventori della regia, che proiettava il teatro dall’intrattenimento all’arte. Interprete acclamato per la verità dei suoi personaggi – da Trigorin nel Gabbiano ad Astrov in Zio Vanja, di Cechov, a Rakitin in Un mese in campagna di Turgenev – è stato il più grande scienziato dell’arte dell’attore. Le sue scoperte, passate sotto il nome di “sistema”, hanno cambiato il modo di accostarsi alla recitazione, sia da parte di chi la pratica, sia da parte di chi la studia o soltanto la osserva.
Stanislavskij è un maestro del teatro, senza dubbio. Ma in che senso dev’essere considerato un maestro, senza limitazioni di teatro?
Due in sostanza ne sono le ragioni. La prima è il modo in cui ha risolto il problema della trasmissione dell’esperienza attraverso la parola scritta. La trasmissione dell’esperienza è il problema centrale per ogni maestro, la cui conoscenza non sia solo discorsiva, ma sia conoscenza che si innerva nell’organismo. Non è solo un problema del teatro. La seconda è il lavoro sistematico e operativo che ha condotto sulla zona di confine tra corpo e anima, a prescindere dalla destinazione d’un tale lavoro allo spettacolo.
Questo libro nasce dalla volontà di rendergli giustizia: più umilmente, di fare un po’ di pulizia.
Primo, restituendo Stanislavskij ai suoi libri. I libri di Stanislavskij esistono in edizione americana e in edizione russa, che non sono l’una la traduzione dell’altra. Sebbene tutt’e due siano formalmente di Stanislavskij, i libri americani – assunti acriticamente come la testimonianza autentica del suo pensiero -non lo sono nella sostanza. Non lo sono in misura determinante. Il disegno per la trasmissione dell’esperienza si dissolve, nei libri americani. Dovremo tornare a lungo su questo argomento.
Secondo, collocando il pensiero di Stanislavskij nei suoi confini reali, al di là di quelli espliciti di stretta pertinenza teatrale. Che il teatro venga solo dal teatro e finisca solo nel teatro, è una delle principali ragioni del suo svilimento. Oltre a costruire programmaticamente un sistema per il lavoro dell’attore, il pensiero di Stanislavskij costruì oggettivamente uno yoga per il lavoro su se stessi.
Chiudersi a questa proiezione ulteriore, o non vederla, equivale a banalizzare il pensiero di Stanislasvkij. E a mortificare il valore del teatro.
Contemporanei di Stanislavskij
Stanislavskij era molto preciso su cosa voglia dire contemporaneo. Per essere contemporaneo di qualcuno non basta condividere lo stesso tempo, diceva, può anche non essere necessario. Ciò che condivide lo stesso tempo potrebbe essere attuale e basta (1). Passato il suo attimo, l’attuale sparisce. Il contemporaneo invece dura. Parlava di eventi, ma vale anche per le persone. “Attuali” a parte, che l’hanno incrociato solo per forza di calendario, di Stanislavskij si possono indicare i contemporanei del tempo e i contemporanei del futuro: che l’hanno aspettato nel dopo, per muoversi e andare avanti con lui. Poi, ci sono i contemporanei dell’anima.
La vita di Stanislavskij si è sovrapposta, per periodi più o meno lunghi, a quella di tutti i “padri fondatori” del teatro del Novecento (2). Il “teatro del Novecento” è altra cosa rispetto al “Novecento del teatro”. Il Novecento del teatro è una categoria del tempo; succede all’Ottocento e agli altri cento che lo precedono, in sostanziale continuità. Il teatro del Novecento è una specie del teatro; succede al teatro dell’Ottocento in sostanziale discontinuità. Nel ventesimo secolo convivono un teatro che continua quello precedente e un teatro che invece si fonda proprio sulla cesura con il passato. Il salto può essere emblematicamente indicato nella nascita del cinema, 1895. Il cinema – ma, insieme, anche gli spettacoli di massa, le manifestazioni sportive, lo sviluppo della tecnologia – produce nel teatro una radicale e repentina “perdita del centro” (3). Quegli elementi che in regime d’egemonia apparivano naturali – l’inaffidabilità emotiva e fisica dell’attore, i conflitti interni alla compagnia, i ristretti tempi di produzione… – ora, nella sopravvenuta marginalità, appaiono per quello che sono: limiti, che devono essere giustificati, e possibilmente superati. Se la domanda prevalente nell’Ottocento era stata come fare teatro per essere competitivi nel mercato, nel Novecento diventa perché fare teatro, in assenza tendenziale di mercato. Ejzenštejn brutalmente dirà che è inutile continuare ad affannarsi con l’aratro, una volta che è stato inventato il trattore.
Ma questa dimensione arcaica cominciò ad apparire ad alcuni come una vocazione originaria del teatro. Dietro il testo di storie finte per lo spettatore, si fa luce il “sottotesto” di storie vere per l’attore che le rappresenta. Da “ditta” per produrre spettacoli, la compagnia si propone anche come luogo di relazioni umane oltre la professione, e anzi messe a prova dalle esigenze della professione. Senza rinunciare all’arte, il teatro comincia a rivelarsi come un laboratorio di vita.
Di questo guardare doppio – arte e vita, insieme – sono protagonisti i padri fondatori del teatro del Novecento. Per ricordarne solo i maggiori: Jacques Copeau (1879-1949), cercatore intransigente della “sincerità” dell’attore, intorno al suo teatro del Vieux Colombier; Edward Gordon Craig (1872-1966), che voleva l’attore “supermarionetta”, manovratore impassibile dell’espressione delle proprie passioni; Vsevolod Mejerchol’d (1874-1940), il più grande regista del secolo, che dall’attore pretese che separasse la linea delle parole da quella dei movimenti, per poi ricomporle ad arte; Antonin Artaud (1896-1948), che scoprì il fondo di crudeltà del teatro, quando l’attore non si limiti a rappresentare la vita ma voglia “rifarla”. Sono cenni così sparsi, che farebbero solo confusione se non servissero a far risaltare la comune insistenza sull’attore. E’ l’attore il centro della sfida portata dai padri fondatori del teatro del Novecento. All’attore Stanislavskij chiese di essere “credibile” nelle azioni, per i processi interiori che la motivano, piuttosto che “leggibile” nei segni fisici. Di questo salto, dal segno al processo, fece la sua rivoluzione teatrale. Non più rappresentare, ma rivivere.
Dietro la scienza dell’attore di Stanislavskij, ci sono anche Sigmund Freud (1856-1939), Théodule Ribot (1839-1916) e William James (1842-1910), scienziati dell’anima. A Freud può essere fatta risalire la nozione di subconscio come sede della creatività e della verità, inaccessibile all’intervento diretto di volontà e ragione; a Ribot l’acquisizione che non si dà sentimento senza una corrispondente manifestazione fisica, e che dunque il lavoro per l’espressione è indissociabile da un lavoro per la “reviviscenza”; a James la scoperta, nell’ultima stagione di vita, che l’”espressione giusta”, più che manifestarlo, è il sentimento che vi si associa, e che dunque la ricerca della credibilità può partire dall’azione fisica. Solo Ribot è un riferimento dichiarato. Il rapporto di Stanislavskij con le scienze fu essenzialmente di tipo pragmatico. Si fa qualcosa non perché sia scientificamente corretto, ma perché è praticamente efficace. Inconscio o subconscio, a Stanislavskij importava che l’attore imparasse nella totalità del proprio organismo a non forzare il sentimento (voglio amare, odiare …), ma solo a curare le condizioni affinché spontaneamente il sentimento si manifestasse. Tra gli scienziati dell’anima che nutrirono la scienza di Stanislavskij, non vanno dimenticati Tolstoj e Dostoevskij, con la loro sonda del racconto.
La vita di Stanislavskij si svolse dal dominio degli zar allo stalinismo, passando per la rivoluzione d’ottobre, 1917. Nel piccolo mondo del teatro, vuol dire: dal dilettantismo e mecenatismo dei ricchi alla nazionalizzazione dei teatri e, di fatto, alle sovvenzioni di stato. In quest’arco dagli estremi opposti, Stanislavskij si mantenne fedele a una visione del teatro come pratica di dignità etica. Nel Teatro d’Arte di Mosca, fondato nel 1897 – quasi in un’ideale risposta in diretta alla nascita del cinema – creò un luogo in cui l’attore potesse essere libero dalla schiavitù del “giro”, del “ruolo” e del mercato, ma facendosi pienamente carico del prezzo di queste libertà. Fece maturare il passaggio dal capocomico alla regia, rifiutandone da subito gli aspetti autoritari, per una concezione del regista come compagno più esperto e “primo spettatore” degli attori. A quella che chiamò la “condizione dell’attore”, messo orribilmente in mostra a simulare sentimenti non suoi, operò instancabilmente per sostituire la “condizione creativa”, in cui l’attore rivive sentimenti che lo spettatore non possa non condividere.
Biografia artistica essenziale, con due finestre
Stanislavskij nasce a Mosca il 5 gennaio 1863. Secondo figlio di una schiera di dieci in una famiglia di ricchi e illuminati imprenditori, gli Alekseev, cambiò il nome in Stanislavskij nel 1884, all’ingresso nel professionismo teatrale. Nel suo ambiente d’origine, il teatro non era considerato un’attività di cui andare fieri. La nonna materna, Maria Varley, era stata un’attrice, approdata in Russia durante una tournée con una compagnia francese. Innata o ereditata, la passione per il teatro segnò tutta la vita di Stanislavskij, dall’infanzia all’adolescenza, fino alla giovinezza e alla maturità artistica, secondo le scansioni in cui lo stesso Stanislavskij suddivide la sua vita, nell’autobiografia. L’infanzia è la stagione delle serate al circo, del teatro di marionette, dell’opera italiana, del balletto classico. Già in queste frequentazioni infantili e adolescenziali, si rivela quella che sarà la concezione di Stanislavskij, di un attore che deve saper fare tutto. A questa voracità teatrale soccorrevano con generosità le ricche finanze paterne.
Nel 1877 viene inaugurato il teatrino di Ljubimovka, la casa di campagna, e nasce il “circolo Alekseev”, nel quale in vari ruoli era impegnata l’intera famiglia. Uno degli ultimi spettacoli fu Mikado, di Gilbert e Sullivan, per preparare il quale Stanislavskij ospitò per molti giorni come maestri una troupe di acrobati giapponesi, di passaggio con un circo. Nel 1888, con Aleksandr Fedotov, noto attore e uomo di teatro, inaugura la “Società di Arte e di Letteratura”. Comincia la stagione professionale – anche con le prime prove di regìa – in cui Stanislavskij attore sperimenta, e patisce, tutti i gradi dell’imitazione. L’esperienza più significativa di questo periodo è l’Otello, del 1896. Alle prese con la dismisura della tragedia shakespeariana, Stanislavskij imparò a sue spese che non si può forzare il sentimento. La via per la “condizione creativa” è una via conscia, ma verso l’inconscio.
Nel 1897 si verifica la svolta decisiva. In un memorabile incontro con Vladimir Nemirovic-Dancenko, noto critico teatrale e affermato drammaturgo, prende corpo il progetto del Teatro d’Arte di Mosca. “Una conferenza internazionale non esamina i suoi importanti problemi con la precisione con cui noi allora esaminammo le basi della futura impresa, i problemi di arte pura, i nostri ideali artistici, l’etica del teatro, la tecnica, i piani di organizzazione, i progetti del futuro repertorio, i nostri approcci reciproci”, ricorda Stanislavskij (4). L’inaugurazione avvenne l’anno dopo, con Zar Fedor. Tra i tanti spettacoli delle prime stagioni: Il gabbiano di Cechov (1898), che se non cronologicamente è il battesimo simbolico del teatro, Bassifondi di Gor’kij (1902), Il giardino dei ciliegi (1904). Si precisa l’immagine di Stanislavskij regista, dallo stile basato sui toni melanconici, l’accurato realismo e le vivide scene di massa. Nel 1905 c’è il tentativo di uno Studio con Mejerchol’d, per mettere alla prova le suggestioni del simbolismo. Sono le prime prove di improvvisazione, di un diverso rapporto con il testo: ma sono prove premature, e la strada di Mejerchol’d aveva punti di partenza troppo distanti da quelli di Stanislavskij. Lo Studio chiude lo stesso anno. Nel gennaio 1906 la compagnia del Teatro d’Arte parte per la prima tournée all’estero. A Berlino le fu decretato un vero trionfo. In particolare, fu apprezzata l’interpretazione di Stanislavskij nel personaggio del Dottor Stockmann, in Un nemico del popolo di Ibsen, che da più di cinque anni era un sicuro cavallo
di battaglia. Di ritorno dalla tournée, Stanislavskij si concede una breve vacanza in Finlandia. E’ li, da un leggendario scoglio in riva al mare, che nasce il “sistema”.
Lo “scoglio in Finlandia”
Del Dottor Stockmann Stanislavskij ricorda: “dopo aver letto l’opera, la capii immediatamente, la rivissi, e recitai la parte già alla prima prova”. Aggiunge: “L’anima e il corpo di Stockmann e di Stanislavskij si fondevano organicamente l’uno con l’altro” (5). Ma, dallo “scoglio in Finlandia”, Stanislavskij si rende conto che l’organica fusione non c’è più: il corpo è restato solo. I gesti, gli atteggiamenti del personaggio si ripresentano invariati, ogni sera in scena, ma questo accade per pura “memoria dei muscoli”. I ricordi, le vive emozioni che giustificavano quelle azioni, sono perduti. “Come preservare la parte [da questa] graduale morte spirituale?”, si chiede. Si chiarisce definitivamente la differenza – in realtà, l’opposizione – tra “condizione dell’attore” e “condizione creativa”. “L’attore – scopre Stanislavskij – prima di tutto deve credere a tutto ciò che avviene intorno a lui e principalmente a ciò che egli stesso fa. Ma si può credere soltanto alla verità. Perciò è necessario sentire continuamente questa verità” (6). Sentire la verità della scena come se fosse la verità reale. Ad attivare per via tecnica questo “come se”, Stanislavskij dedicherà gran parte della sua ricerca sul “sistema”, cercando di indurre prima di tutto “l’anima a credere”. Salvo a rendersi conto, più tardi, che “se il corpo non incomincia a vivere, l’anima non crede” (7). Dopo quella dello “scoglio in Finlandia”, sarà l’altra rivoluzione nella vita nell’arte di Stanislavskij.
Negli anni successivi, gli spettacoli sono soprattutto tappe nella graduale crescita del “sistema”. Il Dramma della vita di Hamsun (1907) – con La vita dell’uomo di Andreev, dello stesso anno, e Un mese in campagna di Turgenev (1909) – sancisce definitivamente che non esiste azione esteriore per sé: l’azione esteriore è indissociabile da una corrispondente azione interiore. Nel 1911 debutta Amleto, allestito con la regìa di Gordon Craig. Un grande evento, all’insegna di quel lungimirante egoismo che era la generosità di Stanislavskij. La diffidenza per l’attore, se non portato alla perfezione della “supermarionetta”, di Craig, non poteva conciliarsi con la cura pedagogica che Stanislavskij aveva proprio verso l’”umanità” dell’attore. Il vero banco di prova del “sistema” fu il Primo Studio. Inaugurato nel 1912, a dirigerlo Stanislavskij chiamò l’amico Leopol’d Suleržickij, che non vantava una grande esperienza di teatro ma che aveva una profonda esperienza di uomini. Ai giovani allievi dello Studio, Suleržickij non portava la conoscenza di trucchi del mestiere; seppure, portava l’insofferenza per quei trucchi, il senso di una necessità etica, prima che professionale, di cercare la verità. A rendere famoso il Primo Studio, creando le premesse per la sua dissoluzione, fu Il grillo del focolare, riduzione da Charles Dickens andato in scena il 24 novembre 1914. Un inno, commosso e intimo, alla bontà dell’uomo; ma anche un trionfo di pubblico e critica, purtroppo. Al Primo Studio seguirono il Secondo Studio, lo Studio Čechov, guidato dall’attore Michail, nipote del grande drammaturgo, lo Studio Vachtangov, e altri: in una visione di teatro che sempre più si allontanava di fatto dallo spettacolo come prodotto per privilegiare invece il processo di crescita verso lo spettacolo. Fino alla rivoluzione d’ottobre, oltre alle difficoltà della guerra, ci furono quelle di un lavoro d’attore sempre più impegnato – e a volte invischiato – nell’analisi e nel perfezionamento degli strumenti messi in campo.
La “tragedia del Villaggio Stepančikovo”
Quando, l’11 gennaio 1916, cominciano le prove del Villaggio Stepančikovo, di Dostoevskij, Stanislavskij è da poco reduce da Mozart e Salieri, di Puškin. Quello spettacolo gli aveva dimostrato che non basta che “l’anima creda”; e gli aveva fatto intuire anche la decisiva importanza della musica, o di un suo equivalente funzionale. Il Villaggio Stepančikovo fu il drammatico punto di svolta tra un modo di operare affidato alla reviviscenza, e una nuova via in cui fosse il “corpo che vive” ad indurre l’anima a credere. Per ogni più piccola sezione della parte, Stanislavskij cercò di immergersi a fondo nelle “circostanze date” del personaggio, e solo come risposta alla domanda su come avrebbe agito lui, l’attore, far scaturire l’azione. Sebbene l’accento si spostasse sull’azione, la dipendenza dallo stato emozionale – nel groviglio di circostanze date che lo determinano – restava decisiva. Stanislavskij lavorò, per la sua parte e per la parte del collega Moskvin, un anno intero. Senza successo. E per giunta, nel dicembre 1916 era morto l’amico fraterno Suleržickij. Nel febbraio 1917, Nemirovic-Dančenko, quale condirettore del Teatro d’Arte, decise di intervenire energicamente per salvare lo spettacolo. Lavorò a lungo e con pazienza, ma alla prova generale del 28 marzo 1917, Stanislavskij non ce la fece quasi a portare a termine la rappresentazione, tanto grande era lo sforzo di vivere continuamente dentro il mondo del personaggio. Nemirovic-Dancenko gli tolse la parte, e l’affidò ad un altro attore. Si concludeva, così, uno scontro in cui le due parti avevano ciascuna diverse facce. C’era quella caratteriale di Stanislavskij contro Nemirovic-Dancenko, tra i quali – dopo lo storico incontro del 1897 – non avevano tardato a manifestarsi profonde divergenze artistiche, specie dopo l’”infatuazione” di Stanislavskij per il “sistema”. C’era quella di un approccio letterario e filologico contro un approccio scenico e operativo verso lo spettacolo. E c’era soprattutto lo scontro tra un “sistema” che cominciava ad irrigidirsi sul primato dell’”anima che crede”, ed un “sistema” invece che si disponeva a rinunciare a un tale primato, per assicurarne l’obiettivo essenziale. Per essere fedele alla sua ricerca, contro l’insorgente ortodossia, Stanislavskij pagò il prezzo più cocente per un attore della sua esperienza e della sua fama. Lo pagò con assoluta disciplina. Si concesse solo di non dare alle stampe il capitolo per il quale aveva cominciato a prender note, dal titolo Il Villaggio Stepančikovo. La mia tragedia.
Dal 1918 al 1922 Stanislavskij lavora al teatro Bol’šoj creandovi uno Studio operistico, con lo scopo di insegnare ai cantanti come muoversi in scena. Il 15 giugno 1922 va in scena l’Eugenio Onegin. La rivoluzione, oltre alle difficoltà materiali, aveva ingabbiato Stanislavskij anche con la responsabilità di una fama che non sentiva in armonia né con le sue inclinazioni né, soprattutto, con la sua solidarietà al nuovo regime.
Dal 1922 al 1924 c’è la grande tournée euro-americana. Partenza il 4 settembre 1922; tappa a Parigi, dove per la partenza Jacques Copeau pronuncia un discorso in onore del grande maestro russo. L’arrivo a New York è nel gennaio ’23. Giro, tra le altre città, a Chicago, Filadelfia, Boston. Dopo un intervallo in Europa, nuovo sbarco a New York nel novembre ’23. Il 20 marzo 1924, Stanislavskij e la compagnia del Teatro d’Arte vengono ricevuti dal Presidente Coolidge. Rientro a Mosca l’8 agosto 1924. Già famoso in partenza, il giro consolidò la consacrazione di Stanislavskij, fino alla fissità di un’icona. Comincia la stagione di scrittore – My Life in Art è del 1924 – nella sua duplice vicenda, tra America e Russia.
Dopo il ritorno dall’America, l’impegno per la messa in scena di spettacoli si fa decisamente meno intenso rispetto al passato. C’è, nel 1926, il trionfo dei Giorni dei Turbin di Michail Bulgakov, divenuto collaboratore del Teatro d’Arte, che Stanislavskij cercherà inutilmente di ripetere, nel 1932, con la riduzione di Anime morte di Gogol, e con Molière, del 1936. C’è Il matrimonio di Figaro, del 1927. Quanto all’attività pedagogica, nel 1926 lo Studio operistico si trasforma nello Studio Stanislavskij. Oltre alla messa in scena di opere, vi continuano le ricerche sul lavoro dell’attore. Nel 1935, Stanislavskij dà vita al suo ultimo Studio, lo Studio operistico drammatico. Nel segreto della sua casa, tra il sentore dei medicinali coi quali riusciva a sopravvivere all’infarto che lo aveva colto in scena nel 1928, con pochi allievi ai quali consegnare la sua conoscenza, Stanislavskij rivoluziona il “sistema” di cui aveva scritto e che, senza rinnegarlo né contraddirlo, vedeva ora, alla fine della vita, come un punto di partenza per continuare la sua ricerca.
(“Sistema”, l’abbiamo sempre scritto tra virgolette. Stanislavskij, in aggiunta, premetteva cosiddetto, per marcare meglio la distanza tra il suo pensiero e quello che già in vita paventava gli venisse indebitamente attribuito come suo.)
Stanislavskij muore a Mosca il 7 agosto 1938. Tartufo, sul quale si era concentrato l’ultima attività dello Studio, andò in scena il 4 dicembre 1939.
Contemporanei dell’anima
Evgenij B. Vachtangov, uno dei più significativi registi del Novecento, era di vent’anni più giovane di Stanislavskij. La sua breve vita – morì a trentanove anni – si svolse tutta all’insegna del sistema. E della malattia: tra ospedali, operazioni, terapie e convalescenze tutte destinate, ogni volta, al fallimento. Il sistema lo praticò nel Primo Studio, a partire dal 1913, dopo le prime esperienze al Teatro d’Arte due anni prima. Il “buon Suler”, guida dello Studio, nella scienza di Stanislavskij cercava il valore etico, prima che il risultato tecnico. Ma per un artista come Vachtangov, i risultati erano essenziali. Non aveva tempo per farli maturare naturalmente; così, rovesciò il sistema. Anziché aspettare che la forma emergesse dalla giustificazione interiore, fissava la forma all’inizio, impegnando l’attore a giustificarla, dopo. Tra il ’21 e il ’22, allestì con questo suo sistema quattro spettacoli memorabili: Il miracolo di Sant’Antonio, Erik XIV e Dibbuk, nello Studio ebraico Habima. Quando, il 27 febbraio 1922, ci fu la prova generale del suo ultimo e definitivo capolavoro, la Turandot di Gozzi, lui era in ospedale, prossimo alla morte. Nel frastuono degli applausi che accolsero quell’autentico gioioso ritorno in vita della Commedia dell’Arte,
Stanislavskij gli scrisse di essere “fiero di un simile allievo, se posso chiamarlo allievo”. In realtà, Vachtangov fu un maestro segreto di Stanislavskij. Soprattutto, gli insegnò il coraggio, dandone prova in continui momenti della verità. Stanislavskij seppe mostrarlo solo nel tempo lungo del giorno per giorno, come un uomo comune ostinato a resistere in trincea. L’immagine di un gigante capace di contrattaccare ogni volta, in campo aperto, malgrado la sproporzione delle forze, gli era indispensabile.
E’ straordinario che Stanislavskij decidesse di affidare il laboratorio del suo sistema ad uno che nel teatro era poco più d’un dilettante. Le credenziali di Leopol’d Sulerzickij, il “buon Suler”, erano d’altro tipo. Tolstojano, obiettore di coscienza, aveva pagato con l’internamento in manicomio e la deportazione la renitenza al servizio. Guidò un gruppo di duchobory – la comunità religiosa perseguitata per la sua
opposizione alle armi – in una fuga fino in Canada, dove fondò con loro una comunità. Si stenta a credere a imprese tanto smisurate, fuori delle pagine d’un romanzo. Anche per i giovani attori dello Studio progettò un “ordine spirituale degli artisti”. Vachtangov, tra gli altri, ne abitò la versione sperimentale, sulle rive del Mar nero. Quando Suler morì, nel 1916, Vachtangov gli si rivolse chiamandolo “maestro incomparabile e generoso”.
Prima che persone, Vachtangov e Sulerzickij furono personaggi, per Stanislavskij. Come lo fu Otello. Stanislavskij se lo tenne accanto almeno dal 1896 al 1930. Nel 1896, l’anno della prima prova come attore, vi proiettò l’uomo capace di pretendere la felicità in forza del suo amore e della sua gioventù. Quando, nell’autobiografia, si descrive a provare davanti allo specchio nelle movenze d’una tigre, non è solo al servizio dello spettacolo che lo fa. Magari inconsciamente, lo fa anche per se stesso. Dell’energia astuzia e prontezza d’una tigre aveva bisogno, alle soglie dell’avventura al Teatro d’Arte. Nel 1930, quando Stanislavskij torna alla prova come regista, Otello è diventato quasi diffidente verso la felicità. Ha capito quale peso può comportare il pretenderla, lui vecchio guerriero di fronte a una giovinetta avvezza ai
giochi di corte. Ci vuole forza, per tirarsi indietro di fronte alla felicità. Deve averci pensato, Stanislavskij, vecchio regista alle prese con la malattia e con la propria fama.
Otello, Sulerzickij, Vachtangov. Nel comprenderli tra i contemporanei dell’anima, anima sta ad indicare che, al di là di date e circostanze nella storia dei fatti, la loro intimità con Stanislavskij si svolse in una storia fuori del tempo.